Studiare la storia delle religioni potrebbe essere molto utile a quei cristiani che vogliono riscoprire le proprie radici. Da dove derivi, ad esempio, l’idea di dignità della persona. “Non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero”: con queste parole san Paolo afferma una novità straordinaria per la cultura ebraica, romana e greca del suo tempo, e cioè l’uguaglianza in dignità, davanti a Dio, di ogni creatura umana. Uguaglianza che nessuna filosofia o religione non cristiana contemplava.
Per capire dunque quanto sia nuovo il messaggio evangelico, possiamo fare qualche esempio.
Tutti conoscono la condizione della donna nelle società animiste, dove vige spesso la poligamia; altrettanto conosciuta è la condizione della donna islamica, ancora oggi fortemente discriminata in base alla saggezza popolare, che porta ad esempio a regole proverbiali in cui è chiara l’equiparazione tra la donna e una creatura inferiore: “Se passa un asino, una donna o un cane nero, la preghiera deve essere ripetuta”[1]
Meno conosciuta è invece la visione propria dell’induismo. Anzitutto questa religione non prevede l’uguale dignità di ogni creatura. Infatti in India gli uomini sono divisi a seconda della casta cui, senza libera scelta, appartengono.
Ancora oggi circa 150 milioni di indiani sono fuoricasta, intoccabili, o dalit. Costoro sono condannati ad “attività contaminanti”, a lavori infimi (cremare cadaveri, pulire le fogne…), ad una condizione di assurda inferiorità, e non possono in alcun modo mutare la loro condizione. Benché oggi, grazie all’influsso europeo e cristiano, qualcosa stia cambiando, i fuoricasta rimangono, almeno in parte, come quando nessuno poteva avvicinarli, toccarli, o solo vederli, senza rimanere contaminato; come quando erano costretti a girare con un campanello attaccato alla caviglia, o a urlare la loro presenza, perché gli appartenenti a caste superiori potessero allontanarsi in tempo, pena la bastonatura, o persino la morte[2].
Quanto alle donne indiane esse hanno sempre subito discriminazioni terribili. Pensiamo solamente alla incredibile diffusione, anche odierna dell’infanticidio femminile: «Prima degli anni Ottanta, alle bambine indiane veniva riempita la bocca di troppo riso, per soffocarle, oppure finivano ammazzate con grandi dosi di oppio. O anche, semplicemente, gettate via, o lasciate morire di fame. Poi è arrivata l’ecografia. Oggi è possibile fare diagnosi ecografiche persino nei villaggi ancora privi di acqua potabile o di aspirine. “Nel Punjab, Monica Das Gupta della Banca mondiale ha scoperto che le seconde e terze figlie femmine di madri ricche e istruite morivano in misura maggiore entro il quinto giorno dei loro fratelli”, racconta l’Economist. Lo scenario è apocalittico. “Così come nel corso della storia gli eufemismi sono stati usati per mascherare l’assassinio di massa, termini come ‘feticidio femminile’, ‘preferenza maschile’ e ‘selezione sessuale’ sono oggi coperture per omicidi su larga scala”, dice il dottor Puneet Bedi, consulente del governo indiano. Le chiamano “kudi-maar”, omicidii di bambine. Quando nel Punjab venne introdotta la prima macchina per l’ecografia, nel 1979, c’erano 925 femmine ogni 1.000 maschi. Nel 1991 erano scese a 875 e nel 2001 addirittura a 793. E’ in India che il fenomeno ha acquisito una dimensione in grado di oscurare il futuro stesso del continente e responsabile della scomparsa di un sesto della popolazione mondiale…»[3].
Il sati
Oppure pensiamo all’usanza del sati, cioè del suicidio rituale delle vedove. Per secoli le donne indiane sono state seppellite vive, oppure bruciate sul rogo, insieme ai loro mariti defunti.
Nella storia dell’India milioni di donne sono andate incontro a questa morte, talora “volentieri”, persino col sorriso sulla bocca, indossando abiti nuziali e gioielli. Mentre la gente e i familiari, festeggiavano e banchettavano per l’occasione. Mentre qualcuno controllava che in preda alla paura non cercassero di scappare dal fuoco, pronti a respingervela con bastoni, o non tentassero di annegarsi prima di salire sul rogo, durante il bagno di purificazione nel fiume sacro. Questo perché le vedove, così facendo, divenivano degne di rispetto, di ricordo e di vera venerazione. Al contrario, se non si fossero uccise, sarebbero rimaste in vita in una condizione, quella vedovile, terribilmente discriminata. Nella cultura induista infatti la moglie è chiamata a servire e seguire il marito, come l’ombra segue il corpo, anche nella morte: non di rado accade che la morte di lui “può essere attribuita ad un peccato che lei ha commesso nella vita precedente”, e nello stesso tempo la sua immolazione facilita il raggiungimento della salvezza spirituale per il marito. In ogni modo, la vita della donna senza sposo, diviene inconcepibile, e la vedova che non abbia acconsentito al suicido rituale diviene impura, priva di identità sociale, viene picchiata, rasata, disprezzata dai suoi stessi parenti, né può risposarsi o rifarsi un’altra vita, ma è costretta a vagare raminga, a servire qualche divinità o, se è giovane, a prostituirsi[4].
Se oggi questo avviene ormai raramente, è merito, come vedremo, anzitutto dell’azione dei missionari cristiani[5].
L’arrivo degli europei in India, infatti, mise i nostri antenati di fronte a questi fenomeni che parvero loro, educati da secoli al cristianesimo, impensabili.
Con l’arrivo in India degli Inglesi, nell’Ottocento, costoro si trovarono di fonte ad un enigma: vietare la barbara consuetudine, o permettere i roghi delle vedove, in nome del rispetto delle consuetudini indiane? In verità la East India Company aveva vietato ai missionari cristiani di vivere nei suoi territori, per non vedersi disturbata nella gestione dei propri affari. Missionari significava infatti problemi religiosi coi nuovi sudditi, ma anche controllo di inglesi, o di europei, su altri inglesi. Molto spesso infatti i missionari hanno criticato eventuali soprusi dei loro connazionali colonizzatori, fungendo da voce critica. Ma nel 1813 il parlamento inglese, su spinta di un movimento evangelico in crescita, quello stesso che stava lottando per l’abolizione della schiavitù, costrinse la compagnia ad accettare i missionari, che proprio in quell’anno “cominciarono a chiedere che il sati fosse abolito”. I missionari non portarono avanti questa battaglia soltanto in nome del cristianesimo, ma spesso, con grande sensibilità, provarono ad cercare nella storia indiana attestazioni di una opposizione locale a questa consuetudine feroce. Su posizioni diverse da quella dei missionari si trovarono allora gruppi liberali che in nome del relativismo religioso, si dissero “contrari a interferire nelle usanze locali”. Spesso, in principio, anche i governanti si dimostrarono riluttanti a prendere posizione, intenti soprattutto a non creare problemi alla gestione degli affari e a non suscitare opposizioni indigene al loro potere. Non sembrava opportuno opporsi, per esempio, ai bramini indiani, che “dalla cremazione delle vedove ricavavano prestigio e denaro”, né ad una visione secolare dei rapporti uomo-donna.
Furono dunque i missionari i primi a raccogliere dati, statistiche, motivazioni del sati, e a far conoscere al potere politico e all’opinione pubblica del loro paese la realtà delle cose, creando dei veri e propri movimenti di pensiero. Tra questi possiamo citare l’abate Jean Atonie Dubois, il quale nelle sue “Maniere, costumi e cerimonie induiste”, notava come i bramini così attenti alla vita “degli insetti più insignificanti” e delle loro mucche sacre, guardano con “soddisfazione” all’uccisione di “esseri umani innocenti”[6].
Uno dei più importanti e attivi di questi fu certamente il pastore protestante James Peggs, autore di una grande quantità di libercoli e di opuscoli raccolti nel suo “India’s cries to british Humanity” (Londra, 1832): si tratta di una raccolta di documenti che andrebbero letti dai tanti personaggi che hanno dell’India una visione oleografica e mitizzata.
Perché se è vero che Peggs non dimentica di rimproverare i suoi stessi compatrioti inglesi, è altrettanto certo che Peggs ci dà un’immagine dell’India, ancora oggi in parte riscontrabile, piuttosto agghiacciante. Egli infatti racconta non solo “l’orrido rito del rogo delle vedove”, ma anche i sacrifici umani ad alcune divinità, l’uccisione seriale delle bambine femmine, ancor oggi così drammatica, e “l’esposizione dei malati e degli anziani sulle rive del Gange”. Riguardo a quest’ultima tradizione indiana, S.Mahdihassan ricorda che per accelerare la morte di qualche anziano o malato “la bocca viene riempita di sabbia dai propri figli e il corpo viene spinto nel fiume”. Del resto, come ricorda il già citato Barbagli, nell’India di allora era contemplato come normale il suicidio dei sannyasin, cioè di coloro che erano ormai alla fine della vita: costoro si incamminavano verso le montagne dell’Himalaya, e si lasciavano morire rinunciando a bere, o a mangiare, o buttandosi da un alto scoglio.
Un’altra forma di suicidio accettato dalla comunità, era quello di “coloro che erano così malati da non riuscire più a svolgere i principali riti di purificazione o che avevano commesso un peccato così grave che non potevano espiarlo in alcun modo”. Anche contro queste consuetudini, i missionari portarono un’idea di vita e di Dio ben diversa.
Quanto alla condizione delle donne, sovente cercarono di arginare il fenomeno delle spose bambine, una vera e propria pedofilia legale, e quello della prostituzione sacra, cioè di donne offerte da un padre, o da un potente, ad un santuario in cui avrebbero dovuto dedicarsi, tutta la vita, alla danza e alla prostituzione.
Accanto ai missionari, e a politici accorti e giusti, col tempo,acra si misero alcuni grandi riformatori indiani, che pur rimanendo all’interno dell’induismo, ne ripensavano moltissimi aspetti, alla luce della cultura cristiana europea.
Mi riferisco ad esempio al brahamano bengalese Ram Mohan Roy, che sconvolto dal rogo di una parente vedova che implorava di essere risparmiata, cercò di depurare l’induismo di molti aspetti che gli sembravano intollerabili: dal sati, alla poligamia, a “certi aspetti costrittivi del costume sociale”. R.M. Roy era stato affascinato dal cristianesimo, e ne aveva subito l’influsso.
Simile anche la storia del celebre Gandhi, il cui induismo fu in verità ben poco ortodosso, dal momento che molte delle sue idee provenivano da suggestioni europee e in particolare dalla sua ammirazione per Gesù e per il Discorso della montagna [7]. La sua visione religiosa, di stampo sincretista, si allontanò dall’induismo vero e proprio, ma solo in parte: Gandhi per esempio denunciava l’iniquità del trattamento riservato agli intoccabili (o paria, o dalit), ma rimase favorevole al sistema delle caste. Non è dunque un caso che Gandhi sia stato ucciso da un fanatico induista, che vedeva in lui, a differenza di quanto avviene per lo più in occidente, non un vero rappresentante della cultura induista, ma un traditore.
Si è dunque visto come l’opera dei missionari in India abbia preparato e facilitato tanti provvedimenti del governo inglese a favore del paese colonizzato: gli europei, infatti, si macchiarono senza dubbio di spoliazioni e di crimini, ma portarono in India strade, ospedali e scuole, e proibirono o limitarono i matrimoni delle bambine sotto i 12 anni, il sacrificio delle vedove sul rogo dei mariti defunti, l’annegamento di bambini nei fiumi sacri, la prostituzione “sacra” delle bambine (costrette ai riti più degradanti e perversi)[8], i sacrifici umani, attestati ancora oggi, sebbene raramente, alla terribile dea Kalì…[9]
Quanto ai missionari, costoro si trovarono dinanzi a manifestazioni religiose che non esitarono a ritenere superstiziose e demoniache. Un missionario italiano del Pime racconta di aver visto “il gran carro dell’idolo sotto le cui ruote gettansi a farsi schiacciare molti infelici”, moribondi soffocati dal fango del fiume sacro, messogli in bocca per guarirlo, serpenti e alberi adorati come divinità, cadaveri che galleggiano sui fiumi, alle cui acque sacre si abbeverano svariate persone, cerimonie pubbliche per la celebrazione di matrimoni tra scimmie…
Oltre a ciò, quello che impegnò di più dal punto di vista sociale, fu il problema delle caste.
In India spesso ancora oggi un intoccabile è figlio di un intoccabile e padre di un intoccabile e non può che sposare una intoccabile. Questo genera una società inchiodata, ferma, piena di discriminazioni, statica, povera.
Quale fu inizialmente l’atteggiamento dei missionari di fronte a ciò? Bisogna dire che i protestanti, in generale, si dimostrarono molto più severi ed intransigenti contro il sistema delle caste, mentre i missionari cattolici cercarono di combatterlo in maniera meno diretta, più dolce e graduale.
Nel 1878 per esempio il ministro anglicano James Vaughan invitò migliaia di persone ad un pranzo, vicino a Bhoborpara, ed impose a “tutti di mangiare assieme fra appartenenti a tutte le caste, bramini e paria compresi. Secondo la tradizione religiosa e sociale indiana, mangiare assieme tra membri di caste diverse è un fatto impensabile, impossibile, assurdo, mentalmente e fisicamente ripugnante”. Ne nacque un “pandemonio e una rivolta contro Vaughan e i suoi collaboratori”[10].
Il fatto è che in India farsi cristiano significa uscire dalla casta, e questo però comporta la morte sociale per chi ha deciso, appunto, di infrangere una tradizione secolare. Per cui il successo iniziale delle missioni tra gli indù è molto basso: si convertono di solito i più poveri, i più reietti, quelli che cercano presso i missionari un ricovero, del cibo, qualche cura, il riconoscimento di una dignità che è loro, altrimenti, negata.
Scriveva il missionario padre Arturo Speziale, nel 1995: “Tra gli indù una delle maggiori difficoltà per una vera fratellanza ed unione tra gli uomini di varie razze e religioni è quella dell’intoccabilità, tradizione che c’è non solo tra i tradizionalisti e i fanatici, ma anche tra i poveri, tra quelli di bassa casta o anche fuori casta, sia a livello di mangiare insieme lo stesso cibo cucinato da un non indù sia di matrimoni, perché così si contrae impurità. Un altro esempio di impurità anche tra poveri che hanno una capanna monolocale è questo: quando la donna deve partorire, è obbligata a stare in una mini capanna sia prima del parto, come per un periodo dopo il parto, perché è considerata impura. Non importa che faccia freddo o che piova ed in questa capanna soffrano lei e il neonato, la cosa più importante è l’impurità…”[11]
Oltre a costoro si avvicinano più facilmente al cristianesimo soprattutto le etnie aborigene, i gruppi tribali: i santal, gli oraon, i mahali, i munda…
Costoro sono i primi abitatori del Bengala, “sommersi dalle immigrazioni indo-ariane nel lontano passato e poi dalla conquista islamica nel 140-1500”[12].
La loro caratteristica è di essere disprezzati come “animali immondi” sia dagli indù che dai musulmani. I missionari cattolici del Pime, dalla seconda metà dell’ottocento, si rivolgono quindi a loro, con ottimi risultati: cercano di difenderne i diritti, li istruiscono, insegnano loro una agricoltura moderna, dei mestieri, la medicina, e li allontanano da superstizioni e riti magici, combattono la loro tendenza ad abusare di alcol e di oppio… Oltre a ciò i missionari costruiscono specialmente lebbrosari ed orfanotrofi e cercano di introdurre tra i tribali uno spirito “imprenditoriale”. I tribali, infatti vivono alla giornata, e questo gli impedisce di progredire, di svilupparsi economicamente e tecnologicamente, di fare fronte alle improvvise calamità naturali: insomma li rende estremamente vulnerabili.
Proprio per questo motivo, “per aiutare i tribali bengalesi ad entrare nel mondo moderno”, i missionari cattolici hanno creato in Bengala a partire dagli anni venti del Novecento, delle Credit Unions, banche di risparmio e di credito, banche dei poveri, che hanno lo scopo di fornire piccoli prestiti che, come scrive padre Giulio Berruti, colui che ha permesso il decollo di queste istituzioni, stimolino “l’inizio di piccole attività che producono un nuovo reddito. Allevamento di animali da cortile, produzione di uova, di dolci, di lavori in legno, ferro, paglia…”.
Queste banche, che il premio Nobel Yunus ha riconosciuto essere state l’esempio da cui è partito per la creazione della sua celebre Grameen Bank del Bangladesh, non hanno scopo di profitto, ma di creare una mentalità nuova tra i tribali, responsabilizzandoli e destandone fantasia e capacità. Per questo esse richiedono un interesse molto più basso sia di quello delle grandi banche e degli usurai, che di quello richiesto, appunto, dalla Grameen Bank[13].
Questa attività dei missionari, come tutte le altre cui si è accennato, non crea solo amicizie, conversioni, gratitudine: ma anche l’odio dei nazionalisti indù, che vedono minacciata la secolare e rigida stratificazione sociale, tra le caste, e tra loro e gli aborigeni. Di qui l’odio e la persecuzione crescente verso missionari e convertiti. Gli estremisti indù ostacolano il “lavoro educativo e sociale dei cristiani, da essi considerato un semplice pretesto per convertire la popolazione e sradicarla dal suo particolare retroterra sociale”. Questo porta non solo alla discriminazione continua dei cristiani, ma anche alla persecuzione violenta: negli ultimi anni non si contano più gli attacchi alle chiese, i villaggi cristiani bruciati, le spedizioni punitive a danno dei missionari, colpevoli di liberare dalit (o paria, o intoccabili…) e aborigeni dalla sottomissione, dalle discriminazione e dalla povertà. Perché lo si ricordi, “la non violenza che predicava non è mai stata un valore fondamentale della tradizione induista”[14]
Tra i 2006 e il 2007 si sono verificati oltre cento attacchi a istituzioni cristiane: “luoghi di culto e abitazioni appartenenti a cristiani sono stati dati alle fiamme”. Sono morte 9 persone, e sono state distrutte 600 case e 90 chiese.
Per comprendere cosa significhi la discriminazione verso dalit e cristiani, basti questo episodio: “nell’agosto 1991, nello stato di Andhra Pradesh, sembra che un intoccabile cristiano avesse accidentalmente urtato un proprietario terriero appartenente ad una casta elevata. Il fatto che l’ ‘aggressore’ fosse cristiano passava in secondo piano: l ‘offesa’ non sarebbe stata meno grave se l’avesse commessa un intoccabile indù. Tuttavia l’incidente degenerò rapidamente in una disputa, e la disputa sfociò in una spedizione punitiva. Gli amici della ‘vittima’ organizzarono un raid tra gli intoccabili cristiani, 21 dei quali furono bruciati vivi o comunque assassinati”[15].
Utile rileggere, a tal fine, in conclusione, un articolo di Lorenzo Cremonesi, sul Corriere della Sera del 9/2/2009, intitolato e sottotitolato così: “I Cattolici sono 15 milioni: metà facevano parte della casta più bassa. India, l’assalto ai cristiani. Le aggressioni si sono moltiplicate. Violenze, stupri, conversioni forzate. La guerra religiosa degli estremisti indù”.
[1] Souad Sbai, “L’inganno. Vittime del multiculturalismo”, Cantagalli, 2010, p.90.
[2] Giorgio Renato Franci, “L’induismo”, Il Mulino, Bologna, 2005, pp.73,74.
[3] Il Foglio, 5 marzo, 2010; Anna Meldolesi, “Mai nate. Perché il mondo ha perso 100 milioni di donne”, Mondadori, Milano, 2012.
[4] Marzio Barbagli, “Congedarsi dal mondo”, Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 243-279. Molti italiani conobbero l’usanza del sati o dalla letteratura missionaria oppure da autori come Emilio Salgari, in passaggi analoghi: “-Fra tre giorni si compirà, sulle rive del Gange, un oni-gomon a cui devono prendere parte le bajadere e le nartachi della pagoda di Kalí ed il manti certo non vi mancherà. -Che cos’è questo oni-gomon? -chiese Sandokan. -Si brucerà la vedova di Rangi-Nin sul cadavere del marito, il quale era uno dei capi dei Thugs. -Viva? -Viva, sahib.- E la polizia anglo-indiana lo permetterà? -Nessuno andrà ad informarla. -Credevo che quegli orribili sacrifici non si compissero piú. -Il numero è ancora assai grande, non ostante la proibizione degli inglesi. Se ne bruciano ancora molte delle vedove, sulle rive del Gange.” [E.Salgari “Le due Tigri”, 1904]
[5] Nell’ultimo decennio del Novecento, pur essendo ormai rarissimi i sati, “i resoconti di violenze ai danni delle donne erano sempre più frequenti, soprattutto di uccisioni di giovani spose a cui veniva dato fuoco perché secondo il marito, o la sua famiglia, non avevano portato in dote abbastanza ricchezza. Ogni anno si stimavano tra i 10.000 e i 15.000 casi del genere”. Si arrivò così alla formulazione di leggi “volte soprattutto a limitare gli abusi legati alla dote, le violenze sessuali e di altro tipo, nonché la facoltà di determinare il sesso del feto per scegliere un figlio maschio”, con risultati diversi ( Barbara Metcalf e Thomas Metclaf, “Storia dell’India”, Mondadori, Milano, 2004, p. 247).
[6]Arvind Sharma, “Sati, Historical and phenomenical essays”, Delhi, 1988, p. 57 e seg.
[7]“Vi dirò in che modo la storia di Cristo, come narrata nel Nuovo Testamento, abbia colpito un estraneo come me. La mia conoscenza della Bibbia iniziò quasi quarantacinque anni fa, attraverso il Nuovo Testamento. A quel tempo non ero riuscito a sviluppare un eccessivo interesse per il Vecchio Testamento, che avevo certamente letto, ma solo per adempiere una promessa da me fatta a un amico incontrato per caso in un hotel. Ma quando arrivai al Nuovo Testamento e al Sermone della Montagna, cominciai a cogliere l’insegnamento cristiano: l’insegnamento del Sermone della Montagna echeggiava in me qualcosa da me appreso nell’infanzia, qualcosa che sembrava appartenere al mio essere e che mi pareva di veder attuare nella vita d’ogni giorno, attorno a me (…). Era l’insegnamento della non-ritornsione, o della non-resistenza al male. Di tutto quanto lessi, quello che mi colpì indelebilmente fu il fatto che Gesù fosse arrivato quasi a dettare una nuova legge, benchè, naturalmente, avesse negato che fosse questo lo scopo della sua venuta, anzichè il mero consolidamento della vecchia legge mosaica. Beh, Egli l’aveva cambiata al punto da farne una legge nuova: non occhio per occhio, dente per dente, ma il prepararsi a ricevere due colpi quando se ne è ricevuto uno e a fare due miglia quando ne è stato richiesto uno (…). Vidi che il Sermone della Montagna sintetizzava l’intero cristianesimo per chi intendesse vivere una vita cristiana. Fu quel sermone a farmi amare Gesù (…) Benchè si canti “Ogni gloria a Dio nell’Alto dei Cieli e pace in terra”, infatti, oggi come oggi, non sembra esserci nè gloria a Dio nè pace sulla terra. Finchè rimarrà una sola bocca affamata, finchè Cristo non sarà ancora davvero nato, dobbiamo continuarlo ad aspettarlo. Quando si sarà stabilita la vera pace, non avremo bisogno di dimostrazioni, ma se sentiremo l’eco della nostra vita (…) Allora possiamo dire che Cristo sarà davvero nato” (Gandhi, Buddismo, Cristianesimo, Islamismo, Newton Compton, Roma 1993, pp. 52-54).
[8] “Secondo uno studio condotto dall’Associazione razionalista indiana, il 30 per cento delle bambine che si prostituiscono a Bombay lo fa per esaudire un dovere religioso. Provengono tutte dalla casta degli Intoccabili e oltre il 70 per cento delle piccole inizia la professione prima di raggiungere i 14 anni di età. Sono delle devadasis consacrate alla dea Yellamma. Il termine devadasi può esser diviso in due. La radice dedi, significa dio, mentre la seconda parte dasi, indica la schiava femmina. Le devadasis sono, quindi, le schiave di Yellamma o Yellardamma, un appellativo per indicare la “Madre di Tutti”, probabilmente un’antica dea della fertilità. La tradizione delle devadasis sopravvive ancora in alcune zone costiere degli stati di Maharastra, Goa e nella zona meridionale di Karnataka…” (http://it.peacereporter.net/articolo/1084/Bimbe+intoccabili%2C+prostitute+a+sette+anni).
[9] “Nell’India rurale, il dramma dei bambini offerti in sacrificio per ottenere ricchezze e salute. Subhadra e i suoi tre figli hanno ucciso un bambino, lo scorso febbraio, nella regione indiana dell’Uttar Pradesh. Dopo avere mutilato il corpo del piccolo Akash, otto anni, hanno offerto il suo sangue e i suoi resti alla dea Kalì, come aveva suggerito loro un tantrik,un guaritore tantrico, per ottenere attraverso il sacrificio del bambino quella ricchezza che tanto desideravano. Lo scorso mercoledì i colpevoli sono stati condannati a morte da un tribunale indiano. Il guaritore non è mai stato catturato. Decine di bambini sacrificati. Il dramma di Akash si è consumato nel giro di poche ore, il 14 febbraio 2006. La famiglia che l’ha ucciso abitava non lontano da casa sua, nel villaggio di Bhara, a poche ore di macchina dalla capitale Delhi. L’hanno rapito durante la notte, il suo cadavere seviziato è stato ritrovato dalla madre il mattino dopo. E Akash non è il primo: il mese precedente, in un villaggio poco distante da Bhara, una donna aveva offerto in sacrificio il figlio della vicina, un bambino di tre anni, dopo che il guru tantrico le aveva garantito “illimitate ricchezze” in cambio della sua vita. Una coppia senza figli maschi si è lavata nel sangue di un bambino di sei anni, per ottenere l’erede tanto cercato. Secondo il quotidiano indiano Hindustan Times, solo nell’Uttar Pradesh sarebbero stati almeno trentotto i sacrifici umani negli ultimi otto anni. Ma le cifre potrebbero essere molto maggiori. Un reporter inglese ha visitato la prigione dove Subhadra e i suoi tre figli erano stati rinchiusi, dopo essere scampati al linciaggio della folla. Il guardiano della prigione ha dichiarato che, dal 1997 a oggi, sono stati più di duecento i sacrifici di bambini nella regione, ma che spesso questi episodi vengono insabbiati, per paura di “rovinare il buon nome delloStato”. E il problema non riguarda solo l’Uttar Pradesh. Casi analoghi sono stati riportati nello stato centrale del Madhya Pradesh, nel Bengala occidentale, a Mumbai, e anche nella capitale Delhi, dove una donna è stata accusata di aver ucciso un bambino di neanche tre anni, su consiglio del tantrik, per guarire da una malattia. Il tantrismo e la povertà. Sotto accusa, per avere istigato a commettere i delitti, i guru del tantrismo hindu: uomini considerati “santi” dalla popolazione, una sorta di guaritori che per qualche rupia vendono rimedi e talismani di ogni tipo. In alcuni casi i tantrik sono stati arrestati e condannati, insieme agli autori materiali degli omicidi, molti invece– girovaghi per professione – non sono mai stati presi. I diretti interessati però respingono le accuse: “Non siamo tutti così, noi facciamo del bene alla gente, li aiutiamo con i loro problemi”, dichiara un guaritore dell’Uttar Pradesh. “Non facciamo sacrifici umani- gli fa eco un altro – se serve il sangue si può sacrificare una capra. La nostra reputazione viene rovinata da pochi pazzi, che sfruttano l’ignoranza della gente”. Sicuramente questi casi hanno a che fare con la povertà e la superstizione…(Cecilia Strada, Peace Reporter, 4/12/2006- http://it.peacereporter.net/articolo/6856/Il+sangue+dei+bambini).
Ancora: “Islamabad, 24 mar. (Adnkronos/Aki) – Un sacerdote hindu ha sgozzato le sue tre bambine e poi si è suicidato come sacrificio estremo in segno di devozione alla dea Kalì, una delle divinità più note nel pantheon induista. E’ accaduto nell’abitazione dell’uomo, adibita a tempio hindu, nella città di Mirwah Gorchani, nella provincia sudorientale pakistana del Sindh, al confine con l’India. Tekamdas Meghwar, questo il nome del sacerdote, ha tagliato la gola alle figlie, Parwati di sei anni, Rena di quattro e Aarti di appena un anno per poi uccidersi con un coltello affilato…”.
[10] Piero Gheddo, Missione Bengala, Emi, Bologna, 2010, p. 66.
[11] Idem, p. 378.
[12] Idem, p.129.
[13] Idem, pp.147 e seg.; pp.398-402.
[14] Barbara D. Metcalf, Thomas R. Metcalf, op. cit., p. 157; G.R.Franci: “Certo l’induismo aggressivo non è una novità: i gruppi di asceti guerrieri, in lotta contro i musulmani, ma anche tra di loro, talora persino al soldo di principi musulmani, sono ben noti alla storia dell’India” (op. cit., p. 51).
[15] R. Guitton, “Cristianofobia”, Lindau, Torino, 2010, p. 255, 253.
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