I missionari e l’infanticidio in Cina e India

 

 

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Quando i primi missionari gesuiti raggiungono la Cina, rimangono piuttosto ammirati da questa grande civiltà. Quello che però colpisce negativamente il grande gesuita Matteo Ricci, allorché mette piede nel Celeste Impero, nel 1583, sono la prostituzione dilagante, la grande corruzione, la frenesia per il denaro, e soprattutto, la diffusione della pratica dell’infanticidio.

Il regime comunista, capace di pianificare milioni di aborti forzati, sterilizzazioni di massa, uccisione in serie di neonati, ha ancora da venire, ma il rispetto dei fanciulli, in quel paese per altri aspetti ammirevole, manca del tutto.

Cattura

Come scriverà J. J. Matignon, ai primi del Novecento, i Cinesi sovente vendono le loro figlie, come prostitute, oppure le uccidono, per la povertà, ma anche a causa delle loro superstizioni magiche, del loro ossessivo culto degli antenati: “Come sempre in Cina la superstizione gioca un ruolo chiave: infatti gli occhi, il naso, la lingua, la bocca, il cervello dei bambini sono reputati materie organiche dotate di una grande virtù terapeutica. Succede che dopo il parto la puerpera cada ammalata, e allora, per ingraziarsi gli spiriti, le bimbe, o in certi casi i bimbi, sono soppressi. Esistono delle donne (quelle che noi chiameremmo streghe, ndr) che hanno il preciso compito di procurare la morte alle neonate…I neonati sono soppressi o buttandoli in un angolo dell’abitazione o in una cassa dei rifiuti; dove la polvere e le immondizie non tarderanno ad ostruirne le vie respiratorie”.

Altre volte i bambini vengono annegati o soffocati con dei cuscini, anche se l’influenza degli europei, conclude Matignon, sembra avere finalmente qualche effetto limitante nei confronti di queste consuetudini (J.J. Matignon, Superstition, crime e misère en Chine, Lione, 1902).

Quasi negli stessi anni di Matignon, due missionari raccontano sulla Cina le medesime cose. Il primo è un gesuita, san Alberto Crescitelli, decapitato, e sventrato, a 37 anni, il 21 luglio 1900, durante la rivoluzione dei Boxer.

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Il secondo è un missionario verbita della val Badia, in Trentino Alto Adige, San Giuseppe Freinademetz (nella foto in alto).

Giunto nel paese che amerà per tutta la vita, sino a morirvi di tifo, egli scrive ai suoi cari, in più occasioni, che i cinesi hanno il “costume di esporre il proprio bambino o semplicemente scambiarlo oppure venderlo…”: “Uno dei nostri migliori cristiani, prima della sua conversione, aveva ucciso la sua bambina scagliandola contro le pietre semplicemente perché piangeva troppo” (Sepp Hollweck, Il cinese dal Tirolo, Athesia, 2003, p.35, 36).

In un’altra lettera, scritta da Hong Kong il 28 aprile 1879, Freinademetz racconta come le monache cattoliche abbiano costruito due orfanatrofi, in cui raccolgono più di mille bambini all’anno: i cinesi “li danno per niente o per alcuni centesimi, e non se ne curano altro”.

I missionari dunque, scrive da Puoli il 2 luglio 1882, girano per le strade a raccoglierli: ne trovano a migliaia in fin di vita, e si limitano a battezzarli, mentre quelli che possono li salvano: “molte anime furono già salvate dopo che siam arrivati qui, molti bambini di pagani battezzati che poi se ne morirono ed ancora ieri abbiamo fatto una sepoltura solenne con una piccola bambina di più di un anno, che se ne morì. La sua propria madre voleva strangolarla per poter allattare un bambino altrui e guadagnare denari, essa poi sentì che noi accettiamo ogni sorta di bambini e li alleviamo bene; dunque ce la portò avanti più di due mesi, si ammalò e morì dopo essere stata confermata da noi mezz’ora prima di morire. Noi volevamo fare la sepoltura con tutta pompa per dimostrare ai pagani, come onoriamo loro creature che essi gettano via. I pagani qui non usano scrigni da morte per piccoli bambini ma appena morti fanno un buco e lo gettano dentro. Noi gli facemmo a quella bambina un bel vascello tinto a rosso, la vestimmo con una bella veste azzurra, la portavamo in chiesa, noi tutti missionari accompagnati dai cristiani, che non avevano mai visto così. Molti pagani vennero a vedere…” (G. Freinademetz, Lettere di un santo, Imprexa, Bolzano, pp. 23, 39).

Come in Cina, dove, come si diceva, l’infanticidio è oggi addirittura affare di Stato, analogamente in India. Anche nel grande paese dominato dalla religione induista, l’uccisione, soprattutto delle bambine, è di gran moda, per motivi economici e non solo.

L’agenzia Asianews riportava recentemente questa notizia: “ Presso molte popolazioni tribali le figlie femmine sono considerate solo un peso e la mentalità sociale ne ammette sia il feticidio che l’infanticidio. Nel 2006 in un piccolo villaggio del distretto di Ranga Reddy, a 80 km. da Hyderabad (Andhra Pradesh), 11 neonate sono state lasciate morire di fame dai genitori. Molti tribali sono soliti avvolgere la bambina non voluta dentro stracci e lasciarla morire. Secondo la stampa locale Jarpula Peerya Nayak, padre di 27 anni, ha detto che “mia moglie per la terza volta ha avuto una bambina. Una figlia femmina è un peso e abbiamo deciso di non darle da mangiare. Così è morta”. “E’ davvero difficile crescere una bambina e trovarle marito”. Il 25 febbraio anche suo cugino J. Ravi e la moglie hanno lasciato morire di fame la loro neonata. “Mia figlia – racconta Ravi – è morta due giorni dopo la nascita, perché non l’abbiamo nutrita”. “Abbiamo già due figlie, non possiamo permetterci di averne un’altra”. Un tribale spiega che quale dote della figlia dovrà dare “uno scooter, 5 o 6 tola [58-70 grammi] d’oro e 50 mila rupie, per avere un buon marito”. Dopo la morte, i tribali scavano una fossa e ci seppelliscono la neonata, con sopra una pietra. I cani hanno scavato la fossa e mangiato parte del corpo della figlia di Ravi, così l’hanno seppellita di nuovo. La maggior parte delle 40 famiglie del villaggio hanno assistito a simili episodi o li hanno commessi, molte coppie dopo avere già avuto 2 o più figlie femmine. Jarpula Lokya Nayak ha fatto morire di fame due figlie” (Asianews, 15/3/2007).

Anche in India l’impegno dei missionari e delle minoranze cristiane è votato, oltre che al tentativo di infrangere il muro delle caste e delle diseguaglianze sociali, alla difesa della vita nascente e dell’infanzia, in nome del Dio che si è fatto bambino. Basti, per brevità, un solo esempio: quello di madre Teresa di Calcutta. Tutti sanno che la missione di questa donna è stata quella di aiutare i poveri dell’India, gli emarginati, i deboli, gli ultimi. Tra costoro madre Teresa non ha mai dimenticato di citare i bambini nel grembo materno, definiti da lei, i “più poveri tra i poveri”.

Nel suo “Dateli a me. Madre Teresa e l’impegno per la vita” (Città Nuova),  Pier Giorgio Liverani riporta il pensiero della suora di origini albanesi, espresso in mille circostanze, con una grande forza, come in queste sue frasi: “ Questo, l’aborto è ciò che distrugge la pace oggi. Perché se una madre può uccidere il proprio bambino, che cosa impedisce a me di uccidere voi o a voi di uccidere me? Niente. Ecco quello che io domando in India, che chiedo ovunque: che abbiamo fatto per i bambini? …Noi combattiamo l’aborto con l’adozione. Così salviamo migliaia di vite. Abbiamo sparso la voce in tutte le cliniche, gli ospedali, i posti di polizia: ‘Vi preghiamo di non uccidere i bambini, di loro ci prenderemo cura noi’” .

La lotta a favore dei bambini contro l’aborto e l’infanticidio, specie delle donne, è stata condotta da Madre Teresa e dalle sue suore, talora sino al martirio, con grande forza, scontrandosi, come si diceva, con una cultura ignara della sacralità della vita sin dalla sua origine. Per gli induisti ad esempio, i bambini abbandonati o rifiutati dai genitori, se sopravvivono, sono e rimangono dei paria, dei sotto-casta, che scontano colpe precedenti. Le donne, in generale, e tanto più le bambine, sono costose, a causa della dote, e sono considerate inferiori al maschio, “fino al punto, non raramente, di avvelenarle al seno, cospargendolo di veleno, mentre succhiano il latte materno”. Così succede che vi sia talvolta un numero di nascite molto alto, per la ricerca del maschio a tutti i costi, e un numero di infanticidi femminili conseguente: si abortisce selettivamente, sino a quando non si ottiene il figlio desiderato, di sesso maschile.

Madre Teresa e le sue suore hanno fondato numerose case della carità, scuole ed orfanotrofi, ottenendo grande successo, ma anche l’opposizione del Primo Ministro Morarij Desai, che nel 1979 le accusò di aiutare i bambini con le scuole e gli orfanatrofi, al solo fine di battezzarli e di convertirli. Madre Teresa gli rispose con grande coraggio, scrivendogli tra l’altro: “ Mi pare che Lei non si renda conto del male che l’aborto sta provocando al suo popolo. L’immoralità è in aumento, si stanno disgregando molte famiglie, sono in allarmante aumento i casi di pazzia nelle madri che hanno ucciso i propri figli innocenti…Signor Desai: forse, tra poco Lei si troverà faccia faccia con Dio. Non so quale spiegazione potrà dargli per aver distrutto le vite di tanti bambini non nati, ma sicuramente innocenti, quando si troverà davanti al tribunale di Dio, che la giudicherà per il bene fatto e per il male provocato dall’alto della sua carica di governo”.

E aggiungeva come nei 102 centri di Calcutta gestiti da lei fossero passate, nell’ultimo anno, 11.701 famiglie indù, 5.568 famiglie musulmane e 4.341 famiglie cristiane, a cui si era insegnato il senso della famiglia, il rispetto della vita, la necessità di una procreazione responsabile, arrivando a determinare la riduzione delle nascite, ma senza il ricorso né all’aborto né all’infanticidio!

Il grido dei bambini non nati, degli infanti uccisi, diceva Madre Teresa, ripetendo in altro modo i concetti espressi secoli e secoli prima da Minucio Felice, Tertulliano, e tanti altri, “ferisce l’orecchio di Dio”.