DON ERNEST SIMONI: L’ODISSEA DI UN SACERDOTE ALBANESE SOTTO LA DITTATURA COMUNISTA DI ENVER HOXHA

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Di quello che passò l’Albania tra il 1945 e il 1991 da noi si sa poco, per quanto molti albanesi, fuggiti dal loro paese non appena poterono, furono accolti in Italia e ora vi vivano bene integrati. E ancora adesso magari cambiamo argomento quando qualcuno di loro si abbandona a tristi ricordi. Ma se prima della caduta del regime comunista avevamo la scusa che si sapeva pochissimo di quello che accadeva in quello Stato misterioso solo oltre l’Adriatico, perché nessuno poteva uscirne ed era molto difficile andarci, ora però non ce l’abbiamo più. Abbiamo a disposizione molte testimonianze, racconti, filmati, libri pubblicati;

se vogliamo possiamo informarci, mentre la televisione e il cinema hanno steso su quegli eventi un velo di omertà.

Una testimonianza preziosa è quella di don Ernest Simoni, che di recente ha raccontato la sua storia a Mimmo Muolo, il quale ne ha fatto poi il libro “Don Ernest Simoni: dai lavori forzati all’incontro con Francesco” (Ed. Paoline). Oltre ad essere una grande testimonianza di fede, è un libro per certi versi sconvolgente, perché si stenta a credere che certe cose siano successe veramente a pochi chilometri dall’Italia fino a tempi relativamente recenti. Si potrebbe pensare che i campi di lavori forzati, le indescrivibili torture, le fucilazioni e altri orrori siano un triste primato del solo nazismo. Mentre il comunismo, essendo animato da ideali di equità e giustizia sociale, avrebbe commesso degli eccessi, ma nulla più.

Don Ernest racconta dunque a Muolo la sua vita: l’essere cresciuto in una famiglia di origini italiane dalla profonda fede, l’infanzia serena, il quasi naturale approdo al seminario, la guerra, la fuga delle forza italiane dall’Albania, l’avvento dei comunisti, le persecuzioni di clero e credenti, le incarcerazioni, le torture, le esecuzioni, i lavori forzati… Attraverso l’ossatura della sua vita, don Ernest racconta a noi ignoranti gli snodi principali della storia albanese in quei tragici decenni.
Come era stato per i bolscevici di Lenin, i comunisti albanesi guidati dal giovane Enver Hoxha (pronuncia “hogia”; vedi foto sotto), riuscirono in un primo momento ad imporsi sulla popolazione locale con alcuni slogan a sicuro effetto: vi abbiamo liberato dai nazifascisti, siamo l’unica alternativa a questi ultimi, distribuiremo la terra ai contadini e costruiremo una società equa e giusta. L’illusione, però, sarebbe durata poco.

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Il Fronte Democratico guidato da Hoxha vinse le elezioni del 1946 e, una volta al potere, procedette subito a sospendere tutte le libertà democratiche: il partito comunista venne proclamato l’unico partito legale, e i nemici, interni ed esterni al partito, vennero ad uno ad uno liquidati. Vennero eliminati tutti i collaborazionisti – veri o presunti – degli gli italiani e dei tedeschi, le famiglie benestanti, e si cominciò a perseguitare le fedi religiose, in particolare i cattolici e il clero. I vescovi e i sacerdoti vennero additati come “nemici del popolo” o “spie del Vaticano”; molti vennero arrestati e subirono processi farsa che in molti casi terminarono in fucilazioni, precedute da torture. Il giovane seminarista Ernest Simoni dovette assistere impotente alla chiusura e alla demolizione di chiese e conventi, e persino all’esecuzione di certi suoi compagni. Le condanne a morte di vescovi, sacerdoti e ragazzi che studiavano in seminario suscitano sgomento, ma le torture, che spesso precedevano le esecuzioni, raccapriccio: ad alcuni furono amputati mani e piedi, altri vennero annegati nella fogna appesi a testa in giù, altri ancora subirono interminabili sevizie che li condussero alla morte. A volte veniva loro offerta la possibilità di sopravvivere, in cambio del rinnegamento di Gesù Cristo e della sua Chiesa, ma molti preferirono una morte da martiri piuttosto che una vita nella vergogna.

Don Ernest, che poi sarebbe stato ordinato sacerdote diocesano, studiava intanto nel Collegio dei Francescani di Scutari, centro della vita cattolica dell’Albania, e presto la Sigurimi (la polizia segreta del regime) iniziò ad occuparsi appunto dei francescani. Nascoste delle armi dietro all’altare della chiesa, un giorno entrarono nel convento ed inscenarono una perquisizione. Con la falsa accusa di sedizione e preparazione di rivolta armata, i frati subirono prima un processo farsa e subito dopo vennero fucilati davanti al muro del cimitero. Il convento venne saccheggiato, i libri bruciati, e le celle dei frati trasformate in camere di tortura. La struttura di preghiera diventò presto un campo di prigionia, dove sarebbero passati circa settecento condannati; molti di loro venivano lasciati legati per giorni sui cadaveri di altri prigionieri.

L’elemento che sarebbe farsesco se non fosse tragico, era che la costituzione albanese del 1946 garantiva sulla carta la libertà religiosa. Ma era solo una maschera che un giorno il Partito si sarebbe tolto per mostrare la sua vera faccia, con orgoglio. Nel 1976 venne infatti varata una nuova costituzione che proclamava l’Albania paese ateo (unico caso al mondo), e dichiarava illegale qualunque forma di culto o religione. In quegli anni la Sigurimi perquisiva a caso le abitazioni nei tempi forti: curiosavano, annusavano per le stanze, e la sola preparazione di un dolce pasquale o natalizio (figuriamoci il rinvenimento di Bibbie o rosari) portava all’arresto e ai lavori forzati. I bambini a scuola venivano convinti a denunciare i loro genitori, così i parenti tra di loro. Alcuni, dopo esser stati costretti a denunciare qualche familiare, si suicidarono. Nessuno si fidava più di nessuno.

Ma torniamo al nostro don Ernest. Non ancora sacerdote, fu arruolato nel servizio militare, il quale gli fu reso di proposito massacrante, ai limiti della sopravvivenza. Il regime, che non era tenero con nessuno, contava di eliminare in questo modo chi si ostinava a restare credente.
Sopravvissuto alla leva, venne ordinato sacerdote di nascosto nel 1956. Tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60 il regime allentò un po’ la presa, forse nell’illusione che i cattolici fossero ormai quattro gatti, e non valeva la pena sporcarsi la faccia. Poté dunque svolgere il suo apostolato nei villaggi di montagna fino al 1963. Mal tollerato dai membri locali del partito perché amato dalla popolazione, non lo sopportarono più quando don Ernest pregò su un bimbo musulmano in condizioni disperate, e questi guarì. Nella notte di Natale di quell’anno, alla fine della messa, la Sigurimi si presentò in chiesa, e in nome del popolo albanese – mentre però il popolo affollava la chiesa – lo arrestò e lo condusse in manette attraverso le vie del villaggio, a scopo intimidatorio. In Albania si era ormai instaurato un clima di terrore.

Don Ernest fu sbattuto nella galera di Scutari, e lì ripetutamente interrogato e torturato, nella speranza di strappargli i nomi di altri sacerdoti in incognito e di fargli rinnegare Cristo. Falliti tutti i tentativi, lo condannarono all’impiccagione. Provocato con ogni trucco a parlar male di Enver Hoxha, per trovare un chiaro capo di imputazione, egli aveva dichiarato al contrario di pregare per lui, perché Dio lo illuminasse nella guida del Paese. Chissà come, questa notizia giunse agli orecchi del dittatore stesso, il quale commutò la condanna a morte in 25 anni di lavori forzati (furono poi 28). Tenendo presente cosa fossero i campi di lavoro albanesi, viene da chiedersi se fosse stato un gesto di clemenza del regime o di maggiore crudeltà.

Fu dunque assegnato alle miniere di carbone, su per i monti dell’Albania. Furono anni tremendi: lavoro durissimo, pochissimo cibo, tremende punizioni al minimo sgarro. Molti prigionieri morivano di stenti, e i familiari non ne venivano neppure informati. La tempra dura del nostro eroe e la sua incrollabile fede, assieme ad una speciale grazia divina, gli permisero però di sopravvivere. Ormai ridotto ad uno scheletro, fu trasferito per buona condotta a Scutari come fognaiolo: sette giorni su sette doveva spalare escrementi nelle fogne della città, ma almeno poteva dormire la notte a casa sua. Riusciva anche a battezzare e confessare, rigorosamente di notte e con mille precauzioni, attività che però non rimase ignota alla Sigurimi e che gli costò un nuovo arresto.
Non voglio ora dilungarmi a parlare oltre di questo libro che mi ha catturato e lasciato sgomento.

Enver Hoxha – che si era vantato affermando “io ho ucciso Dio” – morì nel 1985, lasciando il posto a Ramiz Alia, il quale sarebbe rimasto al potere fino alla caduta del regime nel 1991. La libertà venne anche per don Ernest, che non l’aveva mai conosciuta da sacerdote.
Terminò così uno dei più spaventosi regimi mai esistiti, sicuramente il più totalitario d’Europa, dove ogni minimo aspetto della vita della popolazione era sottoposto a rigido controllo. Quasi nessun albanese aveva il passaporto, e scappare vivi dall’Albania era praticamente impossibile. Hoxha aveva rotto sia con l’URSS, che con Tito, che con la Cina: per lui gli ultimi veri comunisti erano stati Stalin e Mao; gli altri erano ai suoi occhi traditori e revisionisti. Aveva fatto dell’Albania un grande carcere a cielo aperto, oltre che un paese povero e arretrato. Una meta che aveva perseguito con incredibile pervicacia fu lo sradicare Dio dal cuore degli uomini. Però non vi riuscì, perché nonostante tutte le efferatezze commesse a questo fine, la fede sopravvisse nel cuore degli albanesi, i quali affollarono le prime messe quando, dopo 45 anni, si poté celebrare nuovamente. Don Ernest, con le sue preghiere e i suoi sacrifici, fu tra quelli che contribuirono alla caduta di questo mostruoso regime, anche se lui dà i meriti alle preghiere di un’altra celebre albanese, cioè Madre Teresa di Calcutta.

Per noi, conoscere questi drammatici eventi, non può essere che salutare. Oltre che una lezione di storia e un ostacolo alla sua falsificazione ed occultamento, la vicenda di questo mite ma fortissimo sacerdote è anche un esempio di fede e di perseveranza. Lo stesso che dovette pensare Papa Francesco, quando abbracciò commosso don Ernest durante la sua visita in Albania.

D.S., per L&P