Come la Chiesa lottò contro la schiavitù antica

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Tutto il mondo antico, prima del cristianesimo, ha conosciuto l’istituto della schiavitù.

Basti pensare all’antico Egitto dei faraoni, e alla costruzione delle piramidi, resa possibile solamente dal sangue degli schiavi; agli schiavi immolati sulle tombe dei loro padroni, nell’antica Mesopotamia e nello stesso Egitto…

Si pensi che già gli egiziani possedevano schiavi neri, provenienti dalla Nubia e dal Darfur, nell’attuale Sudan. “I prigionieri neri, scrive Olivier Pètrè Grenouilleau, appartenevano al faraone, ai ricchi e ai templi. Potevano essere oggetto di contratti di compravendita, di acquisto, di affitto o di prestito, e divenire merce di scambio fra proprietari privati1.

In verità la schiavitù è presente in tutta l’Africa: in epoca antica “ridurre in schiavitù i membri di un’altra etnia africana non era dunque più difficile, per gli abitanti dell’Africa nera, di quanto non fosse per i greci, asservire i non greci2.

Anche nell’antica Grecia la schiavitù era presente. Potevano divenire schiavi i bambini abbandonati, “secondo una politica corrente nelle civiltà antiche3, i vinti in guerra, in generale tutti i non greci, cioè i “barbari”.

Sia per Platone che per Aristotele il “barbaro” è schiavo per natura, inferiore al pari della femmina. Nella Politica, al capitolo 3, lo Stagirita scrive:Se si paragonano il maschio e la femmina, quello è superiore e perciò comanda, questa è inferiore e per questo obbedisce; e lo stesso è giusto che succeda fra tutti gli uomini: e così coloro che sono tanto inferiori quanto lo è il corpo rispetto all’anima e l’animale rispetto all’uomo, le facoltà dei quali consistono principalmente nell’uso del corpo, essendo quest’uso il maggior profitto che da essi si trae, questi sono schiavi per natura”. E ancora: La natura vuole procreare corpi diversi per gli uomini liberi e per gli schiavi: in modo che i corpi di questi siano robusti e adatti agli usi necessari, e quelli dei liberi siano ben formati, non adatti ai lavori servili ma piuttosto alla vita civile che consiste nel dirigere gli affari della guerra e della pace. Anche se talvolta succede il contrario, e agli uni tocca il corpo di schiavo e agli altri l’anima di libero, non c’è dubbio che se nella conformazione del corpo alcuni sono tanto privilegiati da assomigliare alle immagini degli dèi, tutti sono dell’idea che dovrebbero essere serviti da coloro che non hanno raggiunto simile leggiadria. Se questo è vero riguardo al corpo lo è molto di più riguardo all’anima, benché non sia così facile vedere la bellezza dell’anima come invece si vede quella del corpo. E così non può esserci dubbio sul fatto che vi sono degli uomini nati per la libertà ed altri per la schiavitù: schiavitù che, oltre essere vantaggiosa agli stessi schiavi, è anche giusta”.

La schiavitù a Roma

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Nell’antica Roma invece la schiavitù non è vista come un istituto di diritto naturale, ma di diritto positivo. L’uomo cioè non è schiavo per natura, ma lo può diventare. E poiché non nasce schiavo, a differenza che in Grecia, può essere liberato ed ottenere la cittadinanza, e addirittura accedere alle magistrature. Questa visione della schiavitù fa sì che non manchino nella storia di Roma pagana personaggi come l’imperatore Augusto che “cercava di frenare gli arbitri che i padroni potevano commettere sugli schiavi: fu forse proprio l’indignazione suscitata in Augusto da crudeltà di Vedio Pollione, un liberto divenuto cavaliere, che gettava alle murene schiavi responsabili di colpe anche lievi, che indusse Augusto ad affidare al praefectus urbi l’incarico di ascoltare gli eventuali reclami degli schiavi contro gli abusi dei loro padroni”4.

Ciò non toglie il fatto che gli “schiavi erano tra le personae alieno iure subiectae: e questo, come ricorda Gaio (Dig.I, 6, 1, 1), non solo presso i romani, ma apud omnes peraeque gentes, comportava che i padroni avessero diritto di vita e di morte sugli schiavi5. Diritto, vale la pena di ripeterlo, di vita o di morte, “presso tutte le genti” antiche.

Lo storico pagano Tacito ci racconta che quando uno schiavo assassina il padrone, tutti gli schiavi vengono uccisi6. Un padrone ucciso può significare 300 o 400 persone massacrate. Perché? Per scongiurare le rivolte, così probabili in una civiltà in cui gli schiavi costituiscono un’altissima percentuale della popolazione. Accanto alla possibilità dell’emancipazione lo schiavo romano corre però anche il pericolo di pene draconiane: l’ergastulum, l’essere legato con catene alla ruota del mulino, la fustigazione sino al sangue, l’ustione mediante lamine di metalli incandescenti, la mutilazione, la frattura violenta degli stinchi (crurifragium), il marchio a fuoco sulla fronte, la crocifissione (previa tortura), la condanna ad bestias (cioè alle bestie feroci del circo), ad essere arso vivo con indosso una tunica cosparsa di pece, ad metalla (cioè ai lavori forzati nelle miniere)…7

Migliaia e migliaia di prigionieri ridotti in schiavitù vengono decapitati, strangolati o sacrificati, in cerimonie in onore dei generali vincitori di una guerra, attraverso riti sanguinari in cui il potere celebra se stesso, mentre in occasione di ribellioni di schiavi, come quella di Spartaco, seimila di loro, catturati, sono crocifissi a monito per gli altri loro “colleghi” lungo la strada da Capua a Roma.

Anche coloro che si ribellano, come Spartacus, non lottano contro la schiavitù, per abolirla, ma solo per la propria personale libertà (cioè non concepiscono neppure che la schiavitù sia di per sè sbagliata).

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Quanti sono gli schiavi nell’antica Roma, ai tempi dei primi cristiani?

Le continue vittorie e conquiste hanno portato i romani a possedere una quantità immensa di schiavi. Si presuppone che essi, in Italia, all’apogeo dell’Impero siano circa due-tre milioni, cioè il 35-40% della popolazione totale!8

Nel mondo romano, scrive Marc Bloch, “si trovano dovunque degli schiavi: nei campi, nelle botteghe, nelle officine, negli uffici. I ricchi ne mantenevano delle centinaia o delle migliaia; bisognava essere ben povero per non possederne almeno uno9.

San Paolo: “non c’è più schiavo né libero”.

Questa è la situazione dunque dell’Impero romano, allorché il cristianesimo comincia a diffondersi. Dobbiamo dunque immaginare che per tutti, o quasi, la schiavitù sia un dato di fatto, una ovvietà con cui convivere.

Eppure, il messaggio cristiano, avrebbe a poco a poco contribuito enormemente a ribaltare questa terribile realtà, riuscendo, nel corso di alcuni secoli a cambiare drasticamente le cose, a modificare una mentalità presente da sempre.

In verità il Nuovo Testamento non fa cenno al problema della schiavitù, ed è ben comprensibile: l’insegnamento di Cristo non è anzitutto la proposta di una società nuova, ma di un uomo nuovo, di una nuova concezione di Dio e dell’uomo, da cui, secondariamente, e, direi quasi, automaticamente, può sorgere una civiltà nuova, ma non per questo paradisiaca né senza peccato. Insomma il Vangelo non è paragonabile ad una moderna ideologia, che si propone anzitutto il rovesciamento di una data realtà, attraverso la presa del potere; non ha nulla a che vedere con una rivoluzione condotta attraverso la lotta violenta dei pochi contro i molti, col fine utopico di eliminare, completamente, dalla faccia della terra, il male, edificando il Paradiso qui sulla Terra. Il Vangelo propone un cambiamento, una conversione del cuore, una “buona novella”, alla quale si può aderire o meno, liberamente, e a cui seguirà ciò che deve, sul piano politico e sociale.

Ora come ora, ai tempi dei primi cristiani, la schiavitù è un fatto: san Paolo non predica la libertà degli schiavi, e neppure la loro ribellione. Anzi, dopo aver ricordato ai padroni i loro doveri di umanità, invita i servi a non fuggire, a non usare la violenza, ad essere obbedienti, nei limiti, ovviamente, nei quali l’obbedienza è richiesta ad un credente. Nei limiti degli ordini che sono leciti ad un padrone.

Già in queste sue raccomandazioni vi è una novità incredibile: nel momento in cui lo schiavo rimane al servizio di un padrone, magari anche di una chiesa o di un cristiano, ma è riconosciuto come figlio di Dio, accede ai sacramenti, siede insieme al padrone durante la liturgia, e non può più essere ucciso, anghariato, bruciato vivo, crocifisso…non è più “schiavo”, nel senso usato sino ad ora, ma qualcosa di totalmente nuovo (userei, per comodità, la parola “servo”); non è più cosa, ma persona. Nel momento in cui anche al padrone vengono ricordati i suoi doveri, i suoi obblighi, siamo ben lontani dai numerosi Vedio Pollione dell’antichità!

Nota il già citato Marc Bloch, che pure all’influenza della Chiesa sulla liberazione degli schiavi concede, ad avviso di molti, un po’ poco:

“Non era tuttavia poca cosa l’avere detto allo ‘strumento provvisto di voce’ (instrumentum vocale) dei vecchi agronomi romani: ‘Tu sei un uomo’ e ‘Tu sei un cristiano’”. E aggiunge che questo principio aveva ispirato la “legislazione filantropica” di alcuni imperatori10.

Paolo non è, insomma, un rivoluzionario, un Karl Marx, o un Lenin, o uno Stalin, ante litteram: non può né vuole improvvisamente ribaltare un ordine sociale millenario, con leggi repressive calate dall’alto, come se ciò fosse possibile senza ripercussioni inaudite.

E come, del resto? Creando guerre, sollevazioni e le relative repressioni?  E con quale forza, visto l’esiguo numero e l’impotenza dei cristiani? Paolo si “limita” a ribadire un concetto totalmente nuovo: la comune fratellanza e l’uguaglianza di tutti dinnanzi a Dio, perché il suo intento è la conversione dei singoli cuori, e solo attraverso essa, della società.

Scrive ad esempio: “Tutti siamo stati battezzati in uno spirito; per formare un medesimo corpo, Giudei o Gentili, schiavi o liberi” (1 Cor 12, 13); “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 26-28); “Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3, 11).

Non è difficile capire che queste idee sono la vera base di un cambiamento di mentalità epocale, che però ha bisogno, come ogni mutamento che voglia essere duraturo e fondato, dei suoi tempi.

Che ha bisogno di essere piano piano compreso: solo gli “ingenui” o coloro che con grande superficialità amano impancarsi a facili giudici degli altri e del passato, possono stupirsi del fatto che anche tra i cristiani il principio evangelico della uguaglianza di tutti i figli di Dio non fosse immediatamente compreso nella sua interezza, tanta era nuovo e inaudito nella storia dell’umanità.

Commenta Cornelio Fabro: “È chiaro poi che la Chiesa non disponeva dei mezzi esteriori per fare quella immediata trasformazione; essa raccomandava ai padroni di trattare gli schiavi come fratelli e ai servi di vedere nei padroni, come in generale nell’autorità, l’autorità di Dio e Cristo stesso. Non deve sorprendere se la storia della liberazione dalla schiavitù nel mondo cristiano orientale ed occidentale sia molto complicata nelle sue leggi e incerta nei suoi passi. Va rilevato che la Chiesa nella sua interna costituzione abolì, fin dai primi tempi, ogni discriminazione in conformità del detto di S. Paolo (Gal. 3, 28). Nella Chiesa primitiva gli schiavi godevano di tutti i diritti, privilegi, facoltà degli altri fedeli liberi; partecipavano senza discriminazione alcuna alle assemblee liturgiche, ed una volta liberati potevano diventare chierici e anche vescovi (come lo schiavo Onesimo). È noto che papa Callisto I portava le stimmate di schiavo fuggitivo; molti schiavi e schiave convertirono alla fede i loro padroni e contribuirono alla propagazione del Vangelo; molti incontrarono il martirio (per esempio le sante Felicita e Blandina, Potamiena…, i santi Teodulo, Agricola e Vitale, Proto e Giacinto). Ma la Chiesa cercò anche di risolvere sul piano civile e politico il problema della schiavitù. Così si adoperò in tutti i tempi per emancipare coloro che per diritto di guerra o per altri motivi eran divenuti schiavi, alienando e vendendo per tale scopo anche i vasi e le suppellettili sacre, adoperandosi come poteva perché i padroni lo facessero spontaneamente. Non meno efficace fu l’influsso della morale e della spiritualità cristiane sulle cause prossime della schiavitù condannando la cupidigia dei piaceri e delle ricchezze, nobilitando gli affetti familiari per impedire l’esposizione dei bambini e soprattutto nobilitando il lavoro con l’esempio di Gesù Cristo e degli apostoli. L’influsso della concezione cristiana sul riconoscimento di diritti fondamentali dell’uomo ebbe la sua espressione giuridica sia negli Atti dei Concili, sia nella legislazione degli imperatori cristiani: già nel Codex Theodosianus, e poi con Giustiniano, sono emanate ben precise disposizioni che facilitano in ogni modo la liberazione degli schiavi e che mitigano con privilegi, concessioni, diritti di asilo e protezione le condizioni degli schiavi. Il movimento di liberazione continuò in tutto il Medio Evo e si estese alle genti barbariche del Nord che accettavano l’influsso della Chiesa e del diritto romano fino a far scomparire in pratica la schiavitù antica e a concepire nuove forme di dipendenza più consone alla crescente consapevolezza della dignità dell’uomo”.

Provvedimenti concreti della Chiesa contro la schiavitù

Se stiamo ai primi secoli dunque notiamo anzitutto due fatti.

Il primo: Celso, attaccando i cristiani, dice che costoro convertono solo “donnette”, “ragazzini”, e “schiavi”. Ciò significa che per il pagano Celso e per il suo pubblico, queste tre categorie di persone sono evidentemente inferiori; cosa che non è affatto per cristiani che invece, se ne deduce, li convertono, e quindi parlano con loro, da pari a pari, partecipano agli stessi riti, frequentano le stesse mense.

Il secondo fatto è la decisione di Costantino, una volta convertito, di vietare il marchio a fuoco, e poi scoraggiare due pene tipiche per gli schiavi: la crocifissione e i giochi del circo.

Inoltre Costantino, sempre in ossequio alle nuove idee evangeliche, comincia ad ostacolare, tramite leggi contro l’infanticidio e l’abbandono ed aiuti fiscali alle famiglie bisognose, nel 315 e nel 318, l’antica usanza dei padri romani di esporre i propri figli o di venderli, trasformandoli così, sovente, in schiavi.

Infatti i figli abbandonati, quando non erano lasciati morire, scrive P. Veyne, “erano la fonte ordinaria della schiavitù”.

Aggiungono J. Andreau e R. Descat: “in definitiva secondo noi all’interno dell’impero l’esposizione dei neonati costituiva in questa epoca la fonte più importante della schiavitù…la pratica dell’esposizione contribuisce a confermare la presenza di numerose ragazze e donne tra gli schiavi perché, a quanto sembra, si esponevano maggiormente le bambine”. Però “la diffusione del cristianesimo ha certamente causato una forte diminuzione delle esposizioni di bambini. I cristiani si mostravano risolutamente contrari all’esposizione dei neonati: Lattanzio la condanna in modo vigoroso (Istituzioni divine, 6, 20, 18-25)…”.11.

Giustamente Harold J. Barman, professore alla Harvard Law School, dopo aver accennato alle conseguenza della conversione di Costantino, e all’opera degli imperatori cristiani di Bisanzio, nota: “Sotto l’influenza cristiana, e anche in virtù delle idee stoica e neoplatonica recepite dalla filosofia cristiana, furono introdotti i seguenti cambiamenti: 1) nel diritto di famiglia fu attribuita alla moglie una posizione più paritaria di fronte al diritto, richiedendo il mutuo consenso di entrambi gli sposi per la validità del matrimonio, rendendo più difficile il divorzio (cosa che a quel tempo rappresentò un passo avanti verso la liberazione femminile) e abolendo il potere di vita e di morte del capo famiglia sui propri figli; 2) nel diritto relativo agli schiavi, fu dato loro il potere di ricorrere ad un magistrato in caso di abuso dei propri poteri da parte del padrone ed addirittura, in alcuni casi, di rivendicare il diritto di libertà, se il padrone si comportasse crudelmente, moltiplicando le forme di manomissione degli schiavi e permettendo loro di acquistare diritti alla parentela con uomini liberi…” 12.

Sono i primi, immensi, passi: tutto avverrà, come è ovvio, gradualmente.

Infatti anche i cristiani, prima di divenire tali, prima di convertirsi, sono stati pagani, o comunque imbevuti di cultura pagana, e a causa della loro educazione e mentalità millenaria non possono non ritenere la schiavitù qualcosa di normale. E’ comprensibile dunque che neppure i cristiani ritengano, tutti e subito, che questo antico istituto sia completamente da abolire.

L’opera della Chiesa è allora quella di trasformare gradualmente lo schiavo in servo, e, quando possibile, in uomo completamente libero (benché quest’ultima, come è ovvio, sia un’ operazione più complicata, visto che uno schiavo liberato, ma senza lavoro né peculio, non ha significato). I concili locali testimoniano questo processo: essi si rivolgono ai fedeli e agli stessi ecclesiastici che ne possiedono, vietano ogni diritto di vita o di morte sugli schiavi, e intimano loro di rispettarli, di lasciare loro un giorno di riposo, di non punirli duramente, di riconoscere, e non è cosa da poco!, i loro matrimoni (mentre invece per i romani pagani il matrimonio degli schiavi è semplice concubinato, e i figli proprietà del padrone 13) ecc…

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Vi sono Concili che vietano la mutilazione degli schiavi, altri che si incaricano di assicurare la libertà dei manomessi e dei liberti, altri in cui si proclama la libertà degli schiavi divenuti monaci o preti, altri in cui si impone a chi diventa monaco, di emancipare i suoi schiavi, altri in cui si vieta di requisire agli schiavi i loro risparmi, altri in cui si condanna l’uso di usare le schiave come concubine (condanna questa già presente nel divieto ai rapporti con donne che non siano la moglie)…

Il Concilio di Elvira del 305, prescrive una penitenza per il padrone o la padrona che abbiano battuto la propria schiava provocandole un danno: i cristiani non solo non possono gettare alle murene i loro servi, e neppure rompergli gli stinchi o bruciarli, ma neppure possono maltrattarli 14!

Il concilio di Orleans del 549 ed altri concili stabiliscono che se uno schiavo si rifugia in chiesa il padrone lo riavrà solo se giurerà di non fargli del male; alla schiavo la chiesa offre un diritto d’asilo, che varia a seconda delle circostanze. Al Concilio Aghatense del 506 e in quello Matisconense del 585, e in svariati altri concili, si dispongono la vendita di vasi sacri e di beni della Chiesa per la redenzione e il riscatto di alcuni schiavi…Nel concilio Lugdunense del 566 si scomunicano coloro che attentano alla libertà delle persone…15.

La Chiesa, dunque, “non ha sconvolto ogni cosa…ma ha attenuato alcuni degli aspetti più negativi della schiavitù, ha combattuto gli abusi più palesi. Si è interessata particolarmente al riscatto dei prigionieri e si è opposta alla riduzione in schiavitù, con l’inganno o con la forza, di uomini e donne liberi”16.

Ha persino, tramite il solito Costantino, permesso il riconoscimento della domenica come giorno obbligatorio di riposo, a garanzia, soprattutto, evidentemente, dei subalterni.

 

 

Di seguito alcuni documenti:

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1 Olivier Pétré Grenouilleau, La tratta degli schiavi, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 22.

2 Olivier Pétré Grenouilleau, op.cit. p.76.

3 Olivier Pétré Grenouilleau, op.cit. p.26

4 Marta Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaka Book, Milano, 1987, p.34.

5 Marta Sordi, op.cit., p.35.

6 Annali, libro 14, 43

7 U.E. Paoli, Vita romana, Mondadori, 1982, pp.112-113 ; J. Andreau, R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 149.

8 Olivier Pétré Grenouilleau , op. cit., p. 24.

9 Marc Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia, 1993, p.3.

10 Marc Bloch, op. cit., p. 19.

11 J. Andreau, R. Descat, op.cit., p. 82 e 213. Gli schiavi nell’Impero romano erano per lo più i “prigionieri di guerra caduti in proprietà dello stato nemico, che li vendeva all’incanto ai privati, i bambini rapiti dai pirati e dai briganti e allevati per essere venduti, e poi tutti quelli che erano venduti o esposti dal padre; i colpiti da una pena che importasse la perdita della libertà personale, o coloro che divenivano proprietà del creditore in seguito a leggi disumane ma rigide tutrici del credito…” (U. E. Paoli, Vita romana, Mondadori, 1982, p. 107).

12 Harold J. Barman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 179. Della medesima opinione Guido Clemente, nella sua Guida alla storia romana: “Fu dunque assai importante la pratica e l’incidenza di alcuni movimenti culturali, come stoicismo e cristianesimo, per introdurre mitigazioni in aspetti particolari del trattamento degli schiavi…la pratica dell’affrancamento fu favorita dall’ampliamento delle procedure consentite (ad esempio l’affrancamento davanti al vescovo), ma rimasero gli obblighi verso il padrone anche se i vincoli giuridici certamente si attenuarono”, per vari motivi (op.cit., p.362, 363).

13 Nel mondo pagano “il proprietario di schiavi, l’uomo libero o la donna libera divenuta padrona dei propri beni, controllavano le nascite all’interno del gruppo degli schiavi. E ciò tanto nel mondo di lingua greca…quanto nel mondo occidentale romano. Cicerone aveva tradotto l’Economico di Senofonte, un testo di successo, di cui era stato redatto un riassunto nella cerchia aristotelica. Nel trattato si sosteneva che una sana gestione del capitale servile imponeva la separazione dei maschi dalle femmine; il loro congiungimento era oculatamente autorizzato solo come premio. Si impediva agli schiavi di unirsi a quelli, o a quelle di un altro padrone”: insomma era vietato il libero matrimonio, ed anche l’unione sporadica, eccetto nel caso in cui le schiave fossero servite come animali per la riproduzione della manodopera servile (Storia delle donne, op.cit., p. 336). Gli eventuali figli erano proprietà del padrone degli schiavi. La Chiesa si oppose a questo, in nome della sacralità della famiglia.

14 Tale era la sottomissione dello schiavo antico, che la madre di Galeno “aveva l’abitudine di mordere serve e servitori. Il costume era diffuso nell’Impero al punto da indurre il concilio di Elvira a stabilire in una normativa delle punizioni da infliggere alle donne che, in un eccesso di collera, avevano frustato con tale violenza la loro serva da causarne la morte entro tre giorni (si accorda alla padrona il beneficio del dubbio per una morte più ritardata). I vescovi decisero che, se la padrona era animata dalla volontà di uccidere, sarebbe stata esclusa dalla comunione per sette anni…” (Storia delle donne, op.cit., p.364).

15 Giacomo Balmes, Il protestantesimo paragonato col cattolicesimo nelle sue relazioni con la civiltà europea, vol.I, Carmagnola, 1952, cap. XV-XVII.

16 J. Andreau, R. Descat, op. cit., p. 221.

vedi anche: http://www.uccronline.it/2012/11/26/cristianesimo-chiesa-cattolica-e-la-schiavitu/