Sessualità affettività, amore, famiglia e figli, secondo la Chiesa

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L’amore d’una creatura non può creare nulla in noi. Ma può farvi nascere tutto. Senza l’intervento d’un’anima estranea, senza un calore proveniente dall’esterno, i nostri tesori più occulti rimarrebbero eternamente infruttuosi. Chi non è mai giunto in fondo a se stesso grazie all’aiuto di un altro? Chi non è in grado di dire all’amico o all’amata: Tu m’hai restituito a me stesso e io ho ricevuto la mia anima dalle tue mani? (Gustave Thibon)

Amare è bello e naturale… ma non è sempre facile

Non c’è esperienza più importante, per l’uomo, dell’amore: come amicizia e come legame familiare.

Sin dal momento della nostra nascita, ognuno di noi è espressione di un rapporto:

quello tra un uomo e una donna, tra due creature diverse e complementari, la cui unione spirituale e fisica genera una vita.

Un figlio è qualcosa di nuovo, di unico, di irripetibile: epperò nello stesso tempo porta impressi nel corpo e nel carattere i tratti di suo padre e di sua madre.

L’uomo e la donna si abbracciano, quasi per compenetrarsi, per fondersi, per trovare una unità più profonda possibile; nello stesso tempo uno spermatozoo e un ovulo, attraverso un vero e proprio matrimonio (“singamia”- termine scientifico con cui si indica la fusione tra gameti-vuole dire questo), generano non qualcosa, ma qualcuno, il nuovo embrione umano, che è sì l’unione di entrambi, ma, nello stesso tempo, una creatura totalmente nuova.

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Osserviamo la natura, come hanno sempre fatto tutti, i poeti, gli artisti, gli scienziati: quello spermatozoo così piccolino e oblungo, che vince la corsa e che feconda l’ovulo, tanto più grande e così diverso per forma e natura, è un po’ come il marito che abbraccia la moglie, che la stringe a sé, che vorrebbe quasi diventare tutt’uno con lei. Quell’ovulo accoglie, come la moglie accoglie, spiritualmente e fisicamente, il marito.

Siamo creature così: uniche, irripetibili, con una propria personalità, una propria storia, una propria responsabilità, che viviamo di relazione con altri.

Non siamo monadi, né universi chiusi, a sé bastanti; non siamo alla ricerca di noi stessi, ma di altri che ci completino, che ci donino ciò di cui manchiamo, di cui abbiamo bisogno.

Il prossimo, l’amico, il coniuge, il figlio… sono dunque non il nostro limite, ma la nostra ricchezza.

L’avventura di questa vita inizia così: dall’essere figli. Ognuno di noi è prima figlio, poi, un giorno marito o moglie, poi padre o madre.

C’è un ordine, nella realtà dell’amore, che ha la sua importanza. Un ordine logico che è anche bene sia ordine cronologico. Perché, creature immortali, nate per non morire, diventiamo però piano piano ciò che siamo chiamati ad essere. Dante diceva: “bruchi nati a formar l’angelica farfalla”.

Gli antichi, a tal proposito affermavano: serva ordinem et ordo servabit te: rispetta l’ordine e quell’ordine conserverà te, sarà per te, per la tua felicità.

 

I tempi dell’affettività

Nella vita affettiva la Chiesa propone una chiara scansione dei tempi. Può essere interessante comprenderla.

Prima di unirsi con una donna o con un uomo, insegna la Chiesa, è bene vivere due tappe: fidanzamento prima (meglio se non troppo presto, e non troppo lungo), e matrimonio, poi.

Un ordine cronologico, come si è detto, che è anche logico. E che comporta la famosa e vituperata castità prematrimoniale, cioè un tempo di discernimento in cui ragazzo e ragazza, consapevoli ognuno della propria preziosità ed unicità, cercano di comprendere se stessi e la persona che hanno di fronte, prima di affidarsi completamente e donare tutto se stessi.

Per evitare di buttarsi via; di fare il passo più lungo della gamba; di mettere il carro davanti ai buoi: in altre parole di condividere il proprio corpo, la totalità di se stessi, con una persona a cui magari, solo un anno dopo non si affiderebbe non si dice la vita, ma neppure la propria auto o la propria casa.

Il cosiddetto “divieto” di rapporti carnali prima del matrimonio nasce dunque da qui: si conosce, per quanto possibile, una persona, si sperimenta la possibilità di un accordo profondo, e, conoscendola, si impara piano piano ad amarla. Non si dà amore vero, infatti, prima della conoscenza. Così come non si dà profonda conoscenza, senza amore vero.

Perché la Chiesa chiede ai fidanzati di non avere rapporti carnali prima del matrimonio?

Per il bene della coppia; per evitare che un atto che è coronamento di un rapporto (in linguaggio biblico “conoscersi” significa, appunto, stare anche fisicamente insieme) preceda l’esistenza di un rapporto vero; per impedire che un atto che, per essere vero, presuppone la conoscenza vera, per quanto non certo esaustiva, tra due persone, sia falsato nella sua natura unitiva, mettendo insieme due realtà che non sono, in verità, unite, ma solo alla ricerca di un egoistico piacere carnale, e cioè divise; due realtà che, condiviso il letto, dopo qualche mese non saprebbero che dirsi…

La riprova della veridicità di questo approccio è, per chi voglia guardare con serena razionalità, evidente: i rapporti intrapresi senza una motivazione profonda, senza che una vera conoscenza preceda l’atto carnale, sono gesti che non nascendo dall’amore, non generano amore e si esauriscono in fretta. Lasciando in eredità delusione e tristezza.

Un esempio di questo è, non di rado, la convivenza. Sempre più spesso i rapporti carnali non sono solo prima del matrimonio, ma vengono talora concepiti, in modo esplicito e consapevole, al di fuori di esso. Tutti i dati, però, parlano chiaro: le convivenze hanno un tasso di dissoluzione altissimo, sia che siano finalizzate, un domani, al matrimonio, sia, ancora di più, se ciò non accade. Secondo indagini svolte in Inghilterra “se il matrimonio è preceduto dalla convivenza il rischio di divorzio cresce del 60%”. Perché? Forse perché convivere senza aver fatto una precisa scelta, “questa è la persona della mia vita”, indebolisce l’atto (che non possiamo neppure chiamare, appunto, “scelta”, ma “tentativo”) alla sua origine, ma anche nel suo dipanarsi nel tempo?

Le indagini in Inghilterra, coincidenti nei loro risultati con tante altre, dimostrano inoltre che un ragazzo nato da genitori sposati ha il 75% di probabilità di vedere i propri genitori ancora sposati quando compirà il 16esimo anno d’età, “ma se lo stesso ragazzo nasce da genitori che convivono la probabilità è di appena il 7%1.

Ogni uomo, infatti, ha bisogno di certezza e di stabilità, all’interno delle quali costruire i suoi rapporti affettivi e sociali. Il rapporto infatti si genera all’interno di una comunione e di una condivisione, ed è volto al loro approfondimento, non alla loro dissoluzione. Si costruisce per rafforzare e mantenere, non per abbandonare e distruggere ciò che si è costruito.

Affermare che la convivenza è utile all’amore, è come sostenere che si lavora più volentieri e più liberamente senza un contratto fisso, senza stabilità alcuna, con la possibilità di essere licenziati da un momento all’altro; è come ritenere che il non essere vincolati da nessuna legge a mantenere ed educare un figlio, è garanzia di un vero rapporto genitoriale e della felicità del figlio stesso.

In realtà affrontare una vita insieme, tra un uomo e una donna, partendo con l’idea che si tratta di una scelta a metà, non definitiva, temporanea, soggetta a revisioni e scadenze, pone colui che vive una simile esperienza in un atteggiamento già di per sé fragile: la scelta, di solito (non si vuole qui assolutizzare nulla), sarà meno ponderata, meno profonda, meno scrupolosa, minata alla base da un pensiero, più o meno esplicito: “se va male, si cambia”.

Prima ci si fidanza, dunque, e ci si impara a conoscere e ad apprezzare, poi, quando si è scelto di intraprendere una vita insieme, ci si sposa, cioè si assume una responsabilità forte, dichiarata, pubblica, e si corona la propria scelta attraverso un conoscersi completo; che è nel contempo “garanzia” per gli sposi, come per l’eventuale progenie.

Sposarsi è donare totalmente la propria vita, preziosa e unica, ad un’altra persona, che di quella preziosità e unicità si è accorta e innamorata; è assumersi una responsabilità davanti al prossimo, e, per un credente, di fronte a Dio2.

Amore fa dunque rima con dono, responsabilità, impegno, dedizione.

Continuiamo a scandire il tempo cristiano dell’affettività: prima si diventa marito e moglie; solo dopo si diventa padre e madre; per essere poi, nel contempo, marito e padre, moglie e madre. Perché prima moglie e poi madre?

Prendiamo l’esempio di un rapporto extra matrimoniale, e mettiamoci davanti una ragazza-madre3: costei, o sarà spinta all’aborto dalla difficoltà delle circostanze, oppure si troverà ad allevare un figlio da sola, in condizioni di estrema difficoltà, per lei e il figlio. Questo perché l’atto unitivo ha preceduto l’unità; perché l’unione carnale non è stata figlia di un amore cosciente, cioè determinato, fedele, proiettato nel futuro. Prima si assume una responsabilità, l’uno, l’uomo, verso l’altra, la donna, e viceversa; solo allora si potrà vivere lo stesso amore responsabile, e cioè vero, verso una eventuale nuova creatura.

E solo l’uomo che sa essere prima marito, saprà anche essere, nel contempo, padre, perché non si dà ideale rapporto con un figlio, se non assicurandogli le stesse figure genitoriali che lo hanno generato.

Le “regole” uccidono l’amore? E’ il presunto amore, senza altra regola che il capriccio e il desiderio del momento, a uccidere. Non siamo forse spettatori, ogni giorno, di omicidi passionali? Di rapporti carnali che generano morte invece che vita? Di separazioni e divorzi che esitano in omicidi e suicidi? Di stermini di figli, da parte di genitori che hanno rotto la loro unione e sono stati travolti dal dolore sino alla pazzia?

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Oggi troppo poco ci interroghiamo su fatti come quello accaduto l’11 febbraio 2014 a Giussano: Michele Graziano, 37 anni, ha una bimba nata da una relazione; da una seconda relazione ha un altro figlio. Anche la seconda relazione si rompe. Un giorno Michele prende i due figli e li sgozza. Poi pianta nel suo petto la lama del pugnale, per suicidarsi. E’ una storia che purtroppo si ripete sempre più di frequente.

Simili tragedie possono sempre accadere, ma sono certo più probabili quando il rapporto tra uomo e donna è divenuto “liquido”, senza regole, senza tempi, senza un processo di crescita e di verifica.

Il fidanzamento e la verginità prematrimoniale

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Primo passaggio, si diceva, il fidanzamento. Torniamoci sopra brevemente. In una educazione equilibrata e fortunata la prima fase della nostra esistenza è il ricevere l’amore dei nostri genitori. I bambini sono come delle spugne: assorbono ogni gesto, ascoltano ogni parola, bevono tutto ciò che proviene dai loro genitori. Ma i genitori, prima di essere tali, prima di aver generato, si sono conosciuti, si sono amati: il rapporto tra loro precede il rapporto con i figli.

Perché? Perché è impossibile essere buoni genitori, se non si è una buona coppia.

La coppia, il suo formarsi, è dunque all’origine di tutto: se si sarà formata bene, ne deriverà la felicità della coppia stessa, e, di conseguenza, quella dei figli.

Prendiamo una coppia che non si ama, oppure che credeva di amarsi e che poi, di fronte agli ostacoli della vita, si rompe. Senza scendere nelle motivazioni profonde, o in giudizi di alcun tipo, è innegabile un fatto: un uomo e una donna che hanno creduto di vivere insieme, di avere un comune progetto di vita, nel momento in cui troncano il loro legame, nel momento in cui uccidono il loro progetto, soffrono, terribilmente.

Vivono, per lungi periodi, magari per sempre, nel ricordo di ciò che avevano sperato; nel rimorso per ciò che hanno sbagliato; nel rancore, magari, verso quello dei due che è stato il principale colpevole del fallimento. Se nella coppia vi sono dei figli, questi figli soffriranno la separazione dei genitori, ancora di più dei genitori stessi: perché ogni figlio è generato non solo dal padre, e neppure solo dalla madre, ma da entrambi.

E’ carne della carne, sangue del sangue, dei propri genitori, non come singoli, ma come coppia.

E’ l’amore dei due genitori che costruisce la personalità e la serenità dei figli. E’ la roccia su cui costruire la vita futura.

Se la famiglia è “forte”, equilibrata, capace di trasmettere serenità e sicurezza al bambino, egli potrà sviluppare appieno gli aspetti positivi della sua personalità.

Altrimenti egli si troverà a vivere una condizione di precarietà e di fragilità fortissime.

Se è vero che l’amore tra un ragazzo ed una ragazza, tra un uomo e una donna viene, cronologicamente e logicamente, prima del loro amore per i figli, allora è inevitabile comprendere bene l’importanza del fidanzamento, cioè di quel periodo di tempo in cui due persone si piacciono, si scoprono, si saggiano, per comprendere veramente se sono fatte l’una per l’altra.

Il fidanzamento è, in ogni cultura, un momento importantissimo e fondamentale, benché al giorno d’oggi, in Occidente, non sia più, di solito, così.

Il costume infatti è sempre più quello di bruciare le tappe: per dirla in breve il fidanzamento è spesso quel periodo di tempo infinitesimale tra il conoscersi e l’andare a letto insieme. In una settimana, o in un mese, si può fare tutto. Senza pensare che è come chiedere ad una macchina nuova, ancora da rodare, di passare dai zero ai 100 in un secondo; oppure ad un maratoneta, che dovrà percorrere i classici 42 kilometri, di scattare subito, alla partenza.

E’ proprio per evitare questa tentazione, di bruciare le tappe, tentazione oggi resa immensamente più forte dai media e dalla pornografia dilagante, che anche nel mondo antico si richiedeva, di solito, che i futuri sposi arrivassero vergini al matrimonio.

Per la verità, se andiamo al mondo pre-cristiano, la richiesta era indirizzata di più alle donne; è con l’avvento del cristianesimo, invece, che la Chiesa chiede la castità prematrimoniale ad entrambi, alla femmina come al maschio, senza distinzioni.

Perché? Forse per una condanna della sessualità? O perché la relazione è tutta una questione di sesso e di carnalità?

Al contrario: perché l’amore tra un uomo e una donna, che contempla come necessaria l’unione fisica tra i due, è molto ma molto di più, però, dell’unione fisica stessa.

Nel divieto di rapporti carnali pre-matrimoniali, non è il sesso che interessa, ma ciò che dovrebbe essere implicato nella relazione sessuale, e cioè l’amore. Qualcosa di troppo grande per non avere dei segreti e dei rischi, per non abbisognare di una educazione, di un cammino, di una crescita. Come ritenere che, se qualsiasi abilità o virtù abbisogna di educazione, non avvenga altrettanto per l’amore? Senza educazione, infatti, l’impulso all’amore non porta frutto, e diviene più simile alla morte, che alla vita: quanta amara infelicità, incomparabile ad ogni altra, quando nell’amore si brucia ogni tappa, in nome di uno spontaneismo irresponsabile.

La Chiesa chiede la fatica, il sacrificio di ritardare il rapporto carnale, di considerarlo non certo un male, ma come coronamento e compimento di un amore totale, perché, come si è accennato, vi è sempre la responsabilità verso un possibile figlio, e verso il coniuge, ed anche perché l’amore possa, appunto, crescere in tutta la sua “larghezza, altezza, ampiezza e profondità”; affinché possa sin dall’inizio abituarsi a non avere altra ricompensa che in se stesso e nella sua gratuità, maturando quella solidità perseverante e quella benigna pazienza che sono la sua essenza metafisica.

Solidità perseverante e benigna pazienza.

Quale vetta più alta, e faticosa, per la nostra miseria, dell’amore? L’impulso naturale, non educato, infatti, è quello di trovare subito soddisfazione nell’altro, di “farsi padroni di un amore donato”, come canta Claudio Chieffo; quello di afferrare la persona amata, stringendola magari sino a soffocarla, spinti da una emotività violenta, non chiara né verificata: come una mano, diceva don Giussani, che stritola un po’ di sabbia, sino a perderla.

Succede tante volte, infatti, avvicinandosi troppo, di innamorarsi di un dettaglio, di una caratteristica che non caratterizza, di illudersi. La “distanza”, invece, permette di vedere meglio i contorni, di capire con la lucidità dello spirito: di affinare la percezione, la vista, l’udito, il tatto dell’amore, proprio come i ciechi, che nell’esercizio, nella necessità, potenziano i loro sensi, sino a “vedere” più degli altri. Il rapporto fisico, invece, può falsare la prospettiva, deformare: se precede l’amore spirituale, ci illude di crearlo, per automatismo, ingannandoci coll’euforia e la dolcezza sensoriale che lo accompagnano.

Così, spesso, di rapporto in rapporto, in tanti tengono in piedi relazioni basate sul piacere reciproco, senza però approfondire gli abissi dei loro spiriti e delle loro personalità, ben più profondi dello spessore dei loro corpi: ci si ferma alle forme, alle sensazioni, alle emozioni passeggere, senza rendersi conto che è propria della loro natura l’instabilità, la mutevolezza.

Così l’emozione diviene lo scopo e il salvagente, momentaneo, del rapporto, e il sesso, da ricerca dell’altro, potenzialmente così forte da aprire alla vita, da generare carnalmente, diventa sterile ricerca di se stessi: le mani, il corpo, la bocca, tutto si muove a vuoto, quando lo spirito è stato messo a tacere. Poi, un giorno ci si sveglia, nello stesso letto, e ci si accorge di non essersi mai conosciuti, di non aver penetrato, col proprio abbraccio, un altro, ma di aver chiuso le braccia su se stessi, come chi si affanna, sbracciandosi in cerca di aiuto.

Ecco allora, va ribadito, che il fidanzamento cristiano, casto sino al sacrificio, non è la via degli illusi, di coloro che, superficialmente, come si dice spesso, vanno incontro al matrimonio senza conoscersi: “non avete fatto esperienze, non avete convissuto, come potete?”.

E’, invece, il modo per rendere decisiva, unica, preziosa ed essenziale una esperienza vera; il modo di rispettare la natura dell’uomo, la gerarchia tra anima e corpo: l’anima guida, e il corpo segue, non viceversa. Non sono i rapporti carnali, in quest’ottica, l’educazione, il cammino nel quale due persone costruiscono un rapporto vero, fondato per resistere, ma i sacrifici, le speranze, gli umori alterni, le incertezze, le attese proprie del fidanzamento, sublimati e guidati da un desiderio che si fortifica e si purifica, divenendo durevole.

Solo così, nell’attesa che conosce e riconosce, che percepisce la grandezza del dono, e che se ne stupisce, il rapporto tra moglie e marito non rimane una semplice somma di due persone, un io e un tu, ma produce un rapporto, un noi, una nuova realtà, una nuova volontà.

La Genesi dice “un corpo solo ed un’anima sola”. Solo così, vissuto intensamente, come gioia ma anche come responsabilità, il fidanzamento diviene un cammino vero, durante il quale si conosce il compagno di strada, si avanza con lui, e lo si mette alla “prova”, nella totale gratuità: per non doversi poi pentire, per un figlio nato “per sbaglio”, da un amore fasullo, o per un eventuale divorzio, sempre e comunque doloroso e lacerante.

Il matrimonio nel mondo antico

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Se andiamo indietro nel tempo, prima di Cristo, in Etruria, ad Atene, a Roma, a Gerusalemme, ovunque…sono sempre l’uomo e la donna a costituire la famiglia, cioè, secondo l’espressione di Cicerone, il seminarium rei pubblicae. Senza unione tra uomo e donna, del resto, l’umanità non esisterebbe neppure. Osserviamo la Roma pagana. Qui il fidanzamento avviene con una cerimonia ufficiale e lo scambio di un anello (messo nell’anulare, perché, secondo Aulo Gellio, esisterebbe “un nervo molto sottile, che parte dall’anulare e arriva al cuore”).

Nell’antica Roma il matrimonio è una cerimonia solenne, contrassegnata da una sorta di comunione davanti a un altare, su cui viene offerto a Giove un pane di farro. Inoltre vi è il sacrificio di un animale, di cui vengono lette, da un aruspice, le interiora. Una donna, sposata una sola volta, unisce le mani degli sposi, di fronte ai sacerdoti e a dei testimoni, a dimostrazione della funzione anche sociale del matrimonio. Il tutto, almeno in età repubblicana, in modo solenne, per rendere visibile l’importanza del gesto. Verso la fine dell’età repubblicana il matrimonio romano entra in crisi: è il preludio di una più vasta disgregazione sociale, generata dalla fragilità delle famiglie e dal conseguente decremento demografico, cause remote, entrambe, della dissoluzione di Roma. Una volta che Roma abbandona il paganesimo, salvo l’aruspicina, cioè il sacrificio di animali con annessa lettura del futuro, il rituale nuziale romano viene in sostanza conservato nell’uso cristiano.

E benché muti in parte il modo di intendere il rapporto tra uomo e donna (con introduzione dell’indissolubilità matrimoniale e dell’idea della libertà degli sposi), rimane chiaro a tutti, secondo il detto di Modestino (III sec. d. C.), che “nuptiae sunt coniunctio maris et feminae, consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio” (le nozze sono l’unione di un uomo e di una donna, il consorzio di una vita, la comunione fra diritto divino e quello umano). Anche nella Grecia antica il matrimonio è sempre solo e soltanto tra uomo e donna. Neppure qui esiste l’indissolubilità, ma l’idea che la fedeltà sia ideale e auspicabile è ben presente (Ulisse e la fedele Penelope insegnano).

La ricchezza della famiglia

La famiglia è dunque da sempre il luogo in cui si nasce; è da sempre il luogo in cui il bambino vive una ampiezza straordinaria di esperienze: lui, piccolo, in mezzo ai grandi, impara il dialogo tra generazioni; da padre e madre apprende la complementarietà dei sessi; in mezzo ai fratelli, più o meno coetanei, impara la convivenza con gli eguali. In una sola famiglia ci sono tutti i generi, tutte le età, tutti i ruoli. Non vi è scuola di vita, di virtù, di generosità, di relazioni migliore di questa.

La famiglia è luogo di sacrificio, abnegazione, fatica… ma anche di gioia, serenità, forza, amore, solidità, fiducia…

Il matrimonio cristiano e l’indissolubilità

In verità, se andiamo a scavare in profondità, scopriamo che anche la monogamia romana, forse la più solida nel mondo antico, era inficiata da mille eccezioni: il maschio, per esempio, poteva andare tranquillamente con le schiave, senza che ciò costituisse uno scandalo neppure per la moglie; inoltre poteva ripudiare la moglie per una serie piuttosto abbondante di motivi. Così anche la monogamia ebraica era in parte una finzione, in quanto le scuole rabbiniche potevano ampliare a dismisura la possibilità del ripudio, permettendo così agli uomini di sposare, in successione, molte e molte donne. Non solo: anche la poligamia era piuttosto praticata.

A Roma, in età imperiale, cioè all’epoca di Cristo, e poi nei secoli di graduale affermazione del cristianesimo, i costumi sono precipitati. Tutti gli storici sono concordi nel rilevare che la monogamia, già dissolubile, dell’età repubblicana, è in grave crisi. La durata media dei matrimoni è sempre minore; i divorzi sono sempre di più; persino la cerimonia nuziale, in perfetto accordo con la graduale diminuzione del senso del coniugio, è divenuta semplice, veloce, quasi banale. Ormai, come scrive Igino Giordani nel suo capolavoro, “Il messaggio sociale del cristianesimo”, «per divorziare non occorrevano forme complicate. Come per sposare. Bastava un avviso a voce o per iscritto o per messaggio»; tutto era più semplice rispetto al passato repubblicano e il divorzio «divenne una piaga che incancrenì l’istituto del matrimonio e logorò la famiglia».

Il grande Seneca, un contemporaneo di Gesù, scrive che ormai le persone «divorziano per sposarsi e si sposano per divorziare». Giovenale, nel I secolo dopo Cristo, ricorda il nome di una donna che si è sposata 8 volte in 5 anni, mentre Marziale descrive la crisi del matrimonio contemporaneo citando Telesilla, con i suoi 10 mariti. Il grande storico romano Carcopino, nel suo La vita quotidiana a Roma, ribadisce il concetto: il divorzio in età precristiana, a Roma, era raro, in età imperiale estremamente diffuso. Anche perché, come ricorda la storica Eva Cantarella, nel suo L’ambiguo malanno, alla possibilità del divorzio richiesto dal marito, con la donna di solito come vittima impotente, si era andata affiancando la possibilità che a divorziare fossero anche le donne.

Dato di fatto incontestabile: all’arrivo di Cristo e nei secoli successivi nell’impero romano il matrimonio e la famiglia erano in crisi più che mai; una crisi che si riversava anche sulla società e che finiva anche per avere ripercussioni demografiche. In questo contesto, per citare ancora la Cantarella, la predicazione di Cristo sul matrimonio indissolubile fu senz’altro ben poco “realistica” e alquanto “rivoluzionaria”. Tanto più che per i pagani il matrimonio durava sinché dura la volontà di stare insieme, mentre i cristiani “prendevano in considerazione la sola volontà iniziale, fissandola per così dire nel tempo, e solo ad essa attribuendo valore determinante”.

Di qui le legislazioni degli imperatori cristiani, che piano piano cominciarono a limitare i divorzi, imponendo «per la prima volta, una casistica di circostanze che li giustificavano».

Quanto all’insegnamento e all’educazione cristiani, un apologeta come Giustino nella sua Apologia per i cristiani del II sec. d. C espone il pensiero tradizionale della Chiesa, condannando le seconde nozze e il divorzio dei suoi contemporanei e invitando a rispettare in toto l’insegnamento di Cristo. Che certamente non si impone facilmente, soprattutto presso i ceti più alti. Sembra per esempio che Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, sia stato il primo sovrano franco ad avere una sola moglie, meritandosi anche per questo l’appellativo di “Pio”.

Nel corso dei secoli seguenti la Chiesa si batterà in ogni modo anzitutto per insegnare l’importanza e la grandezza dell’indissolubilità matrimoniale, nello stesso tempo per difenderla, soprattutto dalla prepotenza maschile. Tutti ricordano che per questa posizione intransigente si arrivò persino ad uno scisma, quello con l’Inghilterra di Enrico VIII, quando sarebbe bastato annullare le nozze del re inglese, o concedergli il divorzio da Caterina, per scongiurarlo. Ma i casi simili nella storia sono moltissimi.

Il perché dell’indissolubilità

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La Chiesa nasce dai sì: il fiat della Vergine, quello di Cristo, al calice amaro, e quello di Pietro, chiamato a donare la propria stessa vita nel martirio. Il no dei comandamenti, allora, è solo la parte preliminare, per così dire, dell’atto virtuoso, sommamente libero, che nasce da una rinuncia, un no, appunto, per un sì più grande.

E’ come se la Chiesa tenesse sempre alta l’asticella, per ricordarci che abbiamo anche ali e non solo piedi appesantiti; rami e non solo radici; occhi dello spirito, e non solo della carne; desideri nobili e non unicamente appetiti capricciosi e istintivi. Ci addita l’amore pieno, quando vorremmo godere solamente di quello carnale; e mentre ci sconsiglia le ghiande dei porci, ci dona il pane celeste. Ci libera dalla malinconia dei sensi, dalle passioni tristi, dalla frenesia del potere e del successo, dalla schiavitù del peccato e dell’io prepotente, e nel contempo ci stimola al sì dell’umiltà, del perdono, della misericordia, della carità…

Ad ogni no a ciò che vi è di più basso, oppone un sì, sonoro, squillante, affinché non sprofondiamo nel non essere, nell’accidia, nell’istinto di morte. In questo la Chiesa ha una sua pedagogia: conosce nel contempo la bassezza dell’uomo e la sua grandezza, il nostro no e il nostro sì alla vita, il nostro essere quasi sospesi tra l’Essere ed il nulla.

Il matrimonio indissolubile è l’assunzione di un impegno, di un giogo dolce e leggero, che ci rende più uomini, più completi, più felici, più sereni. La Chiesa conosce a fondo quello che siamo: di fronte alla passione distruttiva, che può travolgere i sensi e la libertà dell’uomo più fedele, preferisce frenarla da principio, piuttosto che lasciarla divampare; soffocarla, chiudendole ogni porta, piuttosto che concederle terreno; lasciarla morire di inedia, piuttosto che permettere che ingrossi sempre più, sino a divenire insaziabile. Come con un giocatore d’azzardo: non è efficace contrattare con lui, permettergli di giocare, ma solo in certi giorni. Non si otterrà nulla: il giocatore dilapiderà il suo patrimonio, e la passione lo divorerà piano piano.

Come gioco genera gioco, così il divorzio genera divorzio. E’ un fatto ormai constatato in tutte le società moderne. Per questo la Chiesa non lo accetta, come principio, perché la sua sola possibilità è come un grimaldello, è l’ “occasione che fa l’uomo ladro”: basta a scardinare un matrimonio solido, in un momento di difficoltà; ad annichilire del tutto la volontà, quando essa è indebolita; a scoraggiarci e ad indurci a cambiare strada, quando invece si dovrebbero stringere i denti, per ripartire lungo la via intrapresa.

Sembra solamente un divieto, ma è una proposta, un’ affermazione: amare per sempre si può!

E’ possibile, è umano, è bello, ed è anche doveroso. Il principio, l’indissolubilità del matrimonio, nella sua apparente durezza, è il bastone offerto alla nostra fragilità, per tenerci in piedi anche quando staremmo per cadere. E’ il no che dobbiamo dirci, quando giungono lo scoraggiamento, l’ira, la passione cieca. Devi, perché puoi. E’ nella nostra natura la durata dell’amore: farlo crescere, coltivarlo, vivificarlo ogni giorno.

Ogni giorno dirgli un nuovo sì, impedendo che il tempo, la trascuratezza, l’incostanza, l’egoismo, la freddezza, lo uccidano.

Ogni giorno l’io, invece di chiudersi in se stesso, di rivendicare per se stesso, di illudersi di trovare la felicità nell’egoismo, incontra il tu e si fonde con lui, dando vita a qualcosa di nuovo, il noi: perché il tu non è compiuto da punto di vista quantitativo, comprensibile, perché manca del noi… Il noi non è ‘io e tu’; per poter dire “io e tu” bisogna aver scoperto l’avvenimento del noi…. Intuito il tu, si genera il noi1.

L’apertura ai figli

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Il matrimonio cristiano, per essere tale, deve essere aperto ai figli. I medievali dicevano che l’amore è per natura diffusivo di se stesso, come la luce. Non può restare chiuso, intrappolato.

Marito e moglie, una coppia che si ama, è come una nave pronta a partire e ad imbarcare anche altri: amici, persone bisognose, figli… Il vero amore infatti ci apre agli altri.

Scriveva don Luigi Giussani: “Quanto più un rapporto è preferenziale, tanto più ti spalanca agli altri. Un rapporto preferenziale è vero rapporto se ti fa desiderare che tutti si vogliano bene così, o di voler bene a tutti così… qui sta il paradosso: la preferenza, che ti ‘appuntirebbe’ e ti isolerebbe in un punto, ti spalanca a tutto il mondo”.

Un uomo e una donna non sono fatti per guardarsi negli occhi tutta la vita: diverrebbe un’esperienza egoistica, monotona, sterile. Sono fatti per guardare avanti, insieme, nella stessa direzione.

Per servirsi, anzitutto, l’un l’altro; e per servire. Essere aperti ai figli significa appunto avere una predisposizione ad accogliere il frutto di una unione totale, di anime e di corpi. Nell’atto carnale ci si dona reciprocamente, l’uno all’altro, e nello stesso tempo si genera una nuova vita.

Un figlio che nasce è un’esperienza incomparabile di gioia in cui si percepisce che siamo fatti per gli altri; che si può volere ad un altro, che è parte di noi ma altro da noi, più bene che a noi stessi. Amare qualcuno più di noi stessi è forse l’esperienza più divina che si possa provare su questa terra.

I figli, se la coppia è solida, sono la novità che rinnova, il carburante dell’unione: legano ancora di più i genitori intorno ad un impegno comune, condiviso. Ma se la coppia non è una vera coppia, se è minata al suo interno dall’egoismo, dalla insicurezza, dalla mancanza di fiducia: allora un figlio che nasce può divenire un intralcio, un incubo, un ospite sgradito. Persino da uccidere.

L’aborto volontario è, scientificamente parlando, l’eliminazione violenta e cruenta di una vita umana innocente. Prima ancora, però, è il segno di un rapporto non vero.

La complementarietà degli sposi nell’educazione

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La complementarietà degli sposi non è visibile solo nel loro rapporto reciproco, in cui la diversità uomo-donna psicologica, biologica, ormonale, persino cerebrale, diventa ricchezza2, ma anche nell’educazione dei figli.

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Lasciamo la parola allo psicoterapeuta Roberto Marchesini, che commenta il quadro di van Gogh nell’immagine: “Questo quadro è molto interessante dal punto di vista del genere (gli ideologi del genere non sarebbero molto contenti di Van Gogh): il padre viene dall’esterno della casa e ha vicino a sé gli attrezzi del lavoro; la madre viene dall’interno ed ha alle spalle la casa e regge il bambino. Quello che colpisce è il sincronismo e la coordinazione di questi tre personaggi: la madre si china, appoggia il bambino per terra e lo sostiene (non lo trattiene); il bambino muove già il piedino e muove verso il papà; il papà è accovacciato e tende le braccia verso il bambino. Noi già ci immaginiamo come andrà a finire: il bambino, magari incespica un po’ ma alla fine arriverà dal padre che lo raccoglierà. Quello che è da sottolineare è la coordinazione: la madre sostiene il bambino e non lo trattiene, il bambino lascia la madre e va verso il papà, il papà lo accoglie. Tuttavia questa scena può svolgersi in maniera diversa: il bambino una volta lasciato, può cascare perché non ancora pronto per svolgere questi passi; può succedere che la mamma trattiene il bambino e il bimbo non riesce ad andare dal papà, oppure che il papà, mentre il bambino sta avvicinandosi, si distragga da altro e lasci la scena. Quindi, se uno dei tre attori non rimane coordinato, i primi passi non potranno andare come sognati”.

Il passo sicuro di un figlio, è spesso frutto dell’amore di due genitori.

E la sua educazione passa, come l’autoeducazione dei fidanzati e degli sposi, dalla scelta dei tempi giusti; dai no e dai sì; dall’ esempio e dall’ insegnamento dei genitori; dalla loro capacità di accompagnare la sviluppo dell’identità di ognuno (ogni figlio nasce con delle peculiari potenzialità e delle caratteristiche caratteriali: ai genitori e non solo il compito di valorizzarle e renderle operative; ogni figlio nasce maschio o femmina – ed è segnato da precise caratteristiche psicologiche, biologiche, genetiche, anatomiche, ormonali che variano a seconda del sesso – ma ognuno deve diventare, attraverso l’educazione, uomo o donna).

L’obbedienza degli sposi

Come un bambino, nell’obbedienza ai suoi genitori, costruisce la sua personalità e la sua capacità di rapportarsi con vera libertà – non con narcisismo egotista- con il mondo, così anche due genitori, due sposi, sperimentano ogni giorno l’obbedienza. Non solo quella ai figli, perché ogni autorità è un servizio, quindi paradossalmente un’obbedienza3, ma anche quella ad un vincolo, cioè ad una decisione libera che si è presa; una decisione in cui ci si impegnava a servirsi l’un l’altro, cioè ad essere reciprocamente obbedienti, nelle mille circostanze della vita.

Cosa fanno due sposi ogni giorno? Si obbediscono. Il marito alla moglie, la moglie al marito. Un simile concetto può far paura, ma è l’unica strada che porta all’armonia: ognuno, per incontrare l’altro, rinuncia un po’ a se stesso, obbedisce all’altro, e così facendo ritrova, nell’altro, se stesso. E’ la realtà ad essere costruita in questo modo.

Dove c’è l’obbedienza, il limite del peccato, della divisione, non entra, o quantomeno non trionfa: vincono l’unità, l’armonia, l’amore. Nell’unità trinitaria, Cristo si fece “obbediente, sino alla morte, e alla morte di croce”; nell’unità familiare, come si è detto, l’obbedienza riduce e ridimensiona la distruttività degli egoismi, ma anche delle circostanze sfavorevoli indipendenti da noi.

L’obbedienza è un modo per vivere la difficoltà, il limite, la fragilità umana, e renderli fecondi.

Madelaine Delbrêl notava come la carità fraterna passi dalla “piccola obbedienza degli uni verso gli altri”, e aggiungeva: “Fare il proprio dovere quotidiano è accettare con un’obbedienza ampia la materia di cui siamo fatti, la famiglia di cui siamo membri, la professione che svolgiamo, il nostro popolo, il continente che ci circonda, il mondo che ci racchiude, il tempo in cui viviamo”.

Obbedire alla realtà, alle circostanze, farlo in modo dinamico, attivo, consapevole, umile, non è per nulla facile. Lo si fa sicuramente meglio se si sa vedere in esse il segno della volontà di Dio. Allora obbedire –santa Teresina avrebbe detto “abbandonarsi”, “affidarsi”- diventa andare sino in fondo, guidati da una certezza positiva: tutto ciò che ci è dato di vivere, ha un senso e può essere vissuto al meglio.

La via non è scappare, distruggere per ricostruire, rifugiarsi in un nuovo possesso, materiale o affettivo, ma piegarsi e portare, come i giunchi che, passata l’onda, tornano a svettare.

C’è un “segreto” per l’unità delle famiglie? Sta anche nell’obbedienza. Occorre tornare ad insegnare l’obbedienza a Dio, perché se credo che quella sposa me la ha fatto incontrare Lui, io devo a quell’incontro, anche nella prova, una sana obbedienza. Obbedienza a Dio, dunque, ai suoi insegnamenti (non sempre mi è chiaro il senso dell’indissolubilità, ma mi è chiaro che, obbedendo, capirò), e obbedienza l’uno all’ altro (non ognuno a se stesso). Quando si sente il desiderio di mollare ciò che stiamo facendo, un’ amicizia, un coniuge, o la vita stessa, cosa ci può trattenere, se non la convinzione espressa nel Padre Nostro? Sia fatta, ora, qui, da me, la tua volontà. Sia ora con me la tua forza per vincere la mia debolezza. Sia il mio desiderio di obbedire al tuo santo disegno, la vittoria sul mio desiderio di obbedire alle mie, fragili e fallaci illusioni o alla mia disperazione.

Il divorzio e i figli

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Uno dei motivi per cui la Chiesa dice di no al divorzio (benchè permetta in casi estremi la separazione), è proprio la tutela dei figli.

Gli esperti del Telefono azzurro affermano, per esperienza diretta, che “la separazione dei genitori è uno degli eventi più stressanti che un bambino possa vivere… I figli di una coppia che ha fallito il proprio progetto matrimoniale tendono spesso a vivere la rottura del nucleo familiare come un’ingiustizia…il primo pensiero che attraversa la mente di un bimbo quando apprende che mamma e papà non vivranno più insieme è inevitabilmente di abbandono…”. Ne nasce una “paura che può essere dirompente, che precipita nell’angoscia…durante e dopo la separazione può succedere che i figli diventino ansiosi, irritabili, depressi; possono piangere senza motivo, avere dolori allo stomaco, soffrire di insonnia, andare male a scuola, comportarsi in modo aggressivo”: si tratta di un “dolore fortissimo, più o meno come un lutto”. I figli del divorzio oltre ad attacchi di panico, tristezza, depressione, provano talora un profondo “senso di colpa”, unito ad un “senso di frustrazione legato all’inutilità dei propri sforzi”. Che aumenta con “l’arrivo di un nuovo compagno”, ovviamente incapace di sostituire il vero genitore.

Per il milione abbondante di “minorenni che vivono la condizione di ‘figli di genitori separati’…la condizione di ‘quasi normalità’ a livello sociale non serve certo a ridurre il peso di quello strappo, delle lontananze tra padre e madre, spesso in situazioni di aperta conflittualità, nelle quali i figli diventano terreno di scontro principale tra i due ex coniugi. Di questo disagio, di questa sofferenza, di questa frequente incapacità dei bambini di adattarsi alla nuova condizione sono testimoni gli operatori di Telefono Azzurro che sempre più di frequente devono far fronte alle domande e alle richieste di figli di separati in difficoltà. Sentimenti di tristezza, rabbia, abbandono e confusione si manifestano nei più piccoli, mentre tali emozioni si riducono con la crescita, lasciando piuttosto spazio a manifestazioni di problematicità caratteriale nell’adolescenza4.

I figli senza padre

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Un caso particolarmente studiato è quello dei figli maschi senza padri. Si tratta, infatti, purtroppo, di un’eventualità diffusa. Ricerche e studi governativi fatti in America dicono che già negli anni ottanta il 63% dei suicidi in età giovanile si era verificato in famiglie col padre assente, e che i figli di un single soffrono “più frequentemente di disordini psichici“, ed hanno “una probabilità assai maggiore di cadere in abuso precoce di alcool e droghe”5.

Una ricerca durata per oltre 34 mesi– come ricorda Massimiliano Fiorin nel suo La fabbrica dei divorzisui bambini dell’asilo ricoverati negli ospedali di New Orleans negli anni ottanta, quali pazienti del reparto di psichiatria, ha rivelato che nell’80% dei casi la patologia era originata dall’assenza (voluta o imposta, ndr) del padre6.

Ancora: “A detta delle statistiche elaborate dagli appositi dipartimenti del Ministero di Grazia e Giustizia (americano), agli inizi degli anni novanta il 43% dei detenuti americani era infatti cresciuto in casa con un unico genitore, mentre un ulteriore 14% era vissuto senza entrambi i genitori. Un altro 14% aveva trascorso l’ultima parte dell’infanzia presso un collegio, un’agenzia o un altro istituto giovanile… In Texas, nel 1992, l’85% dei giovani carcerati era parimenti proveniente da fatherless homes. Così come lo era l’80% degli autori di stupri motivati da accessi di rabbia incontrollata7.

Il giornale Il Fatto quotidiano ricordava poco tempo orsono, parlando del primo presidente americano di colore, Barack Obama, uno dei motivi per cui le comunità nere americane partono così svantaggiate rispetto a quelle bianche: “il 72% delle madri afro americane non è sposata… Moltissime (donne nere) crescono i figli da sole. I giovani cresciuti senza padre, però, hanno il doppio delle possibilità dei loro coetanei, di finire in prigione; sono senza padre il 63% dei suicidi; l’80% di giovani con problemi di comportamento, il 71% di coloro che abbandona gli studi superiori e il 70% di quelli che finiscono in riformatorio. Tanto per dare un’idea, le madri di origine asiatica non sposate sono il 16% negli Usa mentre il 26% quelle bianche…”8.

Figli senza padre, o senza madre (come nel caso della foto, in cui la madre è utilizzata solo come contenitore temporaneo, affittato da due uomini gay): una dura realtà, che ognuno spera sia il meno diffusa possibile. E che le leggi dovrebbero in ogni modo scoraggiare9.

Di qui anche il no della Chiesa ai cosiddetti “matrimoni” gay. Un no dovuto non solo a motivi religiosi (“Maschio e femmina Dio li creò”, dice la Genesi), ma anche profondamente scientifici. Non esiste nessuno, infatti, che non nasca da un maschio e una femmina, neppure nell’era della tecnoscienza: sempre occorrono un ovulo femminile e uno spermatozoo maschile. E’ la natura, non il papa che lo ha deciso. E’ una realtà di natura, dunque, che un figlio abbia bisogno dell’apporto materno e di quello paterno. Nessuno dei due genitori è inutile. Ognuno è fondamentale per una corretta, equilibrata crescita dell’individuo.

Ogni figlio ha diritto non solo ad essere concepito da un padre e da una madre, ma anche ad essere da loro educato (nelle foto sotto l’affitto dei seni, e una pagina di un libretto, Piccola storia di una famiglia, che i difensori del gender introducono a partire dagli asili per insegnare ai bambini che ovuli femminili e seme maschile si possono comperare).

Il cosiddetto “matrimonio omosessuale” vuole negare tutto questo: oggi, in Spagna, in Inghilterra, in vari paesi del mondo questa istituzione comporta, coerentemente, la possibilità di adottare dei figli.

Ciò significa che due uomini gay, se “sposati” possono: a) accedere alle banche degli ovuli (con tutto ciò che ciò comporta, di negativo, sul piano fisico e psicologico, per le donne che li vendono); b) affittare un utero (di donne povere e disperate, con la relativa nascita di nuove schiave, le “venditrici d’utero”); c) allevare un bambino che non conoscerà mai la madre biologica, verrà separato forzatamente dalla madre gestazionale e non avrà mai una madre affettiva10. In tutti questi casi non solo non si realizza l’unione complementare di uomo e donna, ma viene anche negato il diritto del bambino, cioè del soggetto innocente ed indifeso, il primo cui la legge debba garantire tutela e rispetto11.

 

La fecondazione artificiale o Pma

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Quello che solitamente si crede, è che la fecondazione artificiale (o: Pma) funzioni. “Si potrà discutere sulle sua eticità, dal momento che la Pma porta alla morte di 9 embrioni su 10, ma funziona”: questo è il sentire comune. Ma non è la verità. Basta mettere da parte Repubblica, L’espresso, Io Donna e le riviste che si leggono dal parrucchiere, e prendere in mano la letteratura scientifica (Lancet, Nature…), che sempre più frequentemente mette in luce, impietosamente, i fatti: la Pma ha un basso tasso di successo, quanto a “figli in braccio” (cioè a bambini nati), mentre questi, dal canto loro, presentano un percentuale di complicanze e di malformazioni molto più alta dei figli nati naturalmente.

Perché questo? Basti pensare alle tecniche: a) quanto allo sperma, se ad essere infertile è il marito, il suo seme, iniettato a forza nell’ovulo tramite una siringa, feconderà l’ovulo stesso, ma, come è intuibile, con negativi effetti secondari (il figlio erediterà la sterilità paterna? Oppure erediterà la malattia che rendeva quel seme infertile?); b) quanto agli ovuli, ogni procedimento di Pma ne richiede un alto numero, che si procura iperstimolando per via ormonale la donna. Gli ovuli così prodotti saranno, inevitabilmente, di qualità inferiore rispetto all’unico ovulo prodotto naturalmente, ad ogni ciclo, senza forzature ormonali. A ciò si aggiunga il fatto che il procedimento della formazione dell’embrione avviene fuori dall’utero, cioè fuori dal luogo adatto per natura non solo allo sviluppo “finale” dell’embrione, ma anche a quello inziale. L’utero materno e la fredda provetta di vetro non sono la stessa cosa: anche qui i dati confermano ciò che il buon senso, da solo, suggerisce.

I figli della Pma sono dunque: proporzionalmente pochi; quanto a salute fisica, molto più problematici (specie se si tratta di gemelli, una complicanza tipica della Pma). Facile intuire che vi siano altri rischi, non puramente fisici, ad oggi difficilmente quantificabili. Tanto più se si aggiungono alle cose già dette altre tipicità della Pma: la possibilità che i bimbi nati derivino da ovuli o da embrioni congelati, rimasti sotto azoto liquido 3-4-10 anni o più (come accade); la possibilità che siano figli di padre genetico o di madre genetica sconosciuti; la possibilità che siano figli di una madre genetica, avendo al contempo una diversa madre gestazionale e magari una ancora diversa madre adottiva…

Ma non è finita: il rischio non è solo per l’ eventuale figlio, sottoposto a problematiche di salute fisica e forse mentale, notevoli; riguarda anche le donne, che subiscono si è detto, una serie di iperstimolazioni che, oltre a risultare, in varie occasioni, inutili (quando il figlio non nasce), portano con sé vari rischi, psicologici e fisici (emorragie, sterilità, in alcuni casi persino morte).

Perché se tutto questo si sa, almeno da parte degli addetti ai lavori e delle riviste scientifiche, non si fa nulla? Perché non ci sono alternative? No. Le alternative ci sarebbero: si pensi non solo al ricorso alla prevenzione (quanta sterilità, oggi, in Occidente, per cattive abitudini sessuali, per uso prolungato di anticoncezionali ecc.?), ma anche ai metodi naturali per la regolazione della fertilità e l’individuazione dei picchi di fertilità, e, ancora, alla ricerca per rimuovere le cause della infertilità, rendendo possibile, in molti casi, un concepimento naturale.

E allora? Il fatto è che nessuno vuole toccare il fiume di soldi legato alla Pma e gestito, in gran parte, da cliniche private. Un fiume di denaro analizzato, per esempio, dall’economista di Harvard Debora L. Spar, autrice di Baby Business, un ‘indagine in cui si mostra come nel 2001 negli Usa circa 6000 bambini sono nati grazie alla vendita di ovuli; 600 si sono sviluppati in uteri di madri surrogate, con contratti di surrogazione al costo di 59.000 dollari l’uno: gli ovuli di prima qualità costavano mediamente 4500 dollari (arrivando a punte di 50.000), mentre il seme maschile veniva venduto, a quella data, a prezzi che variavano da 300 a 3000 dollari.

Ci sono dunque migliaia di coppie, non sempre sterili, che spendono sino a 100.000 dollari e più, altre che ipotecano la casa, altre che per un figlio high tech sono disposte alle sperimentazioni più assurde e pericolose. Mentre nel 1986 vi erano negli Usa 100 cliniche per la fertilità, nel 2002 se ne contavano già 428. Questo immenso mercato, che nel 2004 ha avuto un giro d’affari di 3 miliardi di dollari solo in America, ricorda la Spar, ha la caratteristica di non essere regolato: “il commercio di figli spicca soprattutto negli Stati Uniti, come una straordinaria eccezione: una delle pochissime industrie che operano praticamente in assenza di regolamentazione”.

La pornografia uccide l’amore e il desiderio

Concludiamo queste poche pagine con un cenno ad un grave problema, quello del crescente ricorso alla pornografia. Si è già detto come la castità, l’autocontrollo, la scelta dei giusti tempi siano necessari alla maturazione affettiva. Si potrebbe aggiungere che un modo di intendere la relazione, anche carnale, improntato alla purezza, genera un maggior godimento e un maggior apprezzamento dell’atto sessuale stesso. Per dimostrarlo, basti l’argomento contrario: il ricorso alla pornografia e la svalutazione del rapporto carnale, generano presto sazietà, anorgasmia, incapacità di godere.

Un consumo eccessivo di pornografia online cominciato nella prima adolescenza può scatenare l’anoressia sessuale: il problema sta emergendo adesso e riguarda nella maggioranza dei casi giovani di 20-25 anni che non riescono più a provare desiderio né ad avere un’erezione, anche se non hanno alcun problema fisico. A segnalare i primi casi in Italia è la Società Italiana di Andrologia Medica e Medicina della Sessualità (Siams), presieduta dall’andrologo Carlo Foresta. Si rischia l’anoressia sessuale “Abbiamo pensato di mettere in relazione i dati sulla frequentazione di pornografia online con alcuni disturbi che colpiscono una fascia di età molto giovane e sempre più frequenti negli ultimi anni”, ha spiegato Foresta a margine del convegno della Siams che si apre oggi ad Abano Terme (Padova). I dati relativi al consumo di siti pornografici sono stati commissionati dalla società scientifica ad un’azienda specializzata nell’analisi sul traffico online e si basano su un campione di 28mila utenti maschi. “Dall’analisi – ha detto ancora Foresta – emerge che la frequentazione dei siti pornografici comincia molto precocemente, tra 15 e 16 anni, e avviene quotidianamente anche per 3-4 anni, anche con la possibilità di una sessualità attiva online, attraverso le chat”. Tutto questo interrompe la maturazione di una sessualità legata all’affettività e crea una sorta di assuefazione anche alle immagini più violente. L’anoressia sessuale, come la definiscono gli esperti, si manifesta gradualmente: “All’inizio con scarse reazioni ai collegamenti ai siti pornografici, poi con un generale calo di desiderio e alla fine diventa impossibile avere un’erezione”…12

per testo in pdf: educazione affettività