Il monaco Mendel e le origini della genetica

mendel[…] Ecco, qui, in un hortus di monastero, spinto da un amore millenario per la natura, opera di Dio, dobbiamo metterci per vedere in azione il padre della genetica, Gregor Mendel.
Mendel nasce nel 1822 in Slesia e viene battezzato con il nome di Johann. Suo padre è un contadino intraprendente che in collaborazione con i compaesani e sotto la guida del parroco, J.Schreiber e del naturalista Ch.C.Andrè, ricerca nuovi innesti e nuove ibridazioni per una produzione più ricca. Mendel entra in contatto con un mondo contadino intraprendente e con una Chiesa vicina ai problemi della gente. A trasmettergli la passione per le scienze della natura soprattutto due insegnanti sacerdoti, il già citato Schreiber e Friedrich Franz che “diede al giovane un’impostazione matematica” e “indirizzò il suo futuro”. Nel 1843 viene ammesso come novizio nel monastero agostiniano di san Tommaso, a Brünn (oggi Brno).

Il monastero di san Tommaso, di Brno La libreria del monastero

Ai tempi di Mendel il monastero, che verrà prima avversato dai nazisti, e poi chiuso e danneggiato dai comunisti nel 1950, possiede una libreria di 30.000 volumi, con trattati di Fisica, Meteorologia, Biologia ecc., una immancabile fabbrica di birra, un’aranciera, una serra, un laboratorio e una casetta per l’allevamento delle api. Ha cioè tutte le caratteristiche tipiche della storia monastica. Il superiore di Mendel, l’abate Cyrill Napp è un insegnante di studi biblici e di lingue orientali,

ma anche un esperto di scienze agricole. E’ infatti presidente della “Società reale ed imperiale di Moravia e di Slesia per il miglioramento dell’agricoltura, delle scienze naturali, e della conoscenza della campagna” e presidente dell’ “Associazione Pomologica”; promuove la coltivazione delle piante da frutto, della vite, dell’allevamento delle pecore per migliorare la produzione della lana.

Inoltre, come uomo di Chiesa, Napp è uno dei monaci che visita periodicamente, tra il 1822 e il 1830, le carceri dello Spielberg, dove si trovano anche dei prigionieri italiani. Tra i confratelli di padre Mendel, ricordiamo anche Aurelisu Thaler, “che insegnava matematica ma era anche un esperto di botanica e aveva allestito, sotto le finestre del refettorio, un giardino sperimentale in cui coltivava piante rare” e padre Keller, che aveva il compito di preparare i novizi come Mendel, e che “era membro di parecchie società di agricoltura ed esperto di selezione e di incroci di piante da frutto”.
Mendel, definito dall’abate Napp “monaco modesto, virtuoso, religioso” e “diligente nello studio delle scienze”, viene inviato a studiare a Vienna nel 1851 come uditore di scienze naturali. Ha così la possibilità di avere ottimi insegnanti, prima di divenire egli stesso docente, dal 1854 al 1868, presso un istituto superiore, la Scuola Reale di Bruun. Fare l’insegnante, nonostante gli scacchi subito per diventarlo, gli dà sempre grande soddisfazioni: è chiaro, interessante, ed amato dai suoi alunni. “Amavamo tutti Mendel”, ricorderà un suo alunno.

Un altro: “ricordo il suo volto amabile e lieto, i suoi occhi gentili dallo sguardo birichino, i capelli ricci e arruffati, la sua figura piuttosto squadrata, l’andatura eretta, il modo in cui guardava sempre di fronte a sé; e ancora sento il suono della sua voce, il suo forte accento della Slesia”.

Mendel insegna, e nel contempo segue la vita monacale: preghiera, canto gregoriano, divina liturgia…

Inoltre sperimenta sulle piante, ed “inizia la più lunga e accurata serie di esperimenti di ibridazione mai affrontata da alcuno studioso”, trovando nel genere Pisum sativum, cioè il pisello, antico piatto monastico, la pianta ideale. Mendel si procura ben 34 varietà di semi di pisello, li semina e li coltiva “per due anni di fila sia nel piccolo giardino sperimentale del convento (35 metri per 7) sia nella serra e nella nuova aranciera fatta costruire dall’abate Napp al posto della vecchia e pericolante serra”1.
Per sette anni, a partire dal maggio 1956, compie i suoi esperimenti di incrocio sulle piante di pisello accuratamente selezionate nei due anni precedenti, dimostrando di aver “fatto proprie le più moderne concezioni della matematica combinatoria e della fisica sperimentale”, fino alla formulazione delle famose tre leggi di Mendel sulla modalità di trasmissione dei caratteri ereditari con cui nasce la nuova scienza della genetica…

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A questo punto, dopo le sue scoperte, Mendel invia i suoi lavori sugli ibridi ai maggiori studiosi dell’argomento, senza però che nessuno riesca valutare e a comprendere la novità della sua opera, che verrà ignorata ancora per molti anni dopo la sua morte.

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Solo l’elezione ad abate, nel 1868 (tutti i voti favorevoli, tranne il suo), dopo la morte dell’amato padre Napp, porta Mendel ad abbandonare l’insegnamento e ad occuparsi di amministrare il monastero, entrando in un lungo conflitto con il governo liberale di Vienna che vuole gravare il monastero di tasse (che Mendel si rifiutò di pagare, considerandole inique). In questi anni, a causa dei troppi impegni, Mendel perderà un po’ della sua bonomia, e del suo forte senso dell’umorismo, ma per rilassarsi si rifugerà sempre nell’aranciera (fatta di mattoni e vetri, con una bella stufa per scaldare aranci, limoni ed ananas), per curare le piante e giocare a scacchi con i nipoti…

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Un’altra grande passione del monaco ceco è la meteorologia. Da sempre i monaci avevano dimostrato attenzione per il tempo, in tutti i suoi aspetti. Inventando orologi, strumenti predittivi ecc…

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Mendel inizia infatti a collaborare con la “Società austriaca di meteorologia” sin dal primo anno di fondazione, il 1856: il suo stesso monastero, come avveniva di solito, diventa una stazione di rilevamento dei dati. Mendel, che è anche osservatore meteorologico ufficiale della sua città, si dimostra ancora una volta originale: “non solo si occupò di registrare le temperature, la forza e la direzione dei venti, l’intensità delle precipitazioni e la copertura nuvolosa, ma misurò anche i livelli di ozono, la forma triatomica dell’ossigeno la cui formazione egli attribuì giustamente ai fumi dei camini della città e alla quale fu tra i primi a prestare attenzione per i danni che potevano recare ai raccolti”.
Tanti sono i contributi di Mendel agli studi meteorologici, al punto che, mentre le sue scoperte genetiche tarderanno ad essere comprese, la sua fama di meteorologo varca presto i confini della sua città. Facile comprendere, in conclusione, il legame tra l’amore per la natura, gli orti, la genetica e gli studi meteorologici: sempre troviamo la stessa passione per la realtà, la stessa volontà di interrogare con stupore la natura, opera di Dio, lo stesso desiderio di contribuire al bene degli uomini e della civiltà contadina di allora

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Mendel: uomo di fede e di carità

Benché sulla vita privata di Mendel si conosca poco, sappiamo che egli fu uomo semplice, amabile con i suoi studenti, riservato, talvolta estremamente timido. Riguardo ai suoi interessi naturalistici riteneva che “le forze della natura agiscono secondo una segreta armonia che è compito dell’uomo scoprire per il bene dell’uomo stesso e la gloria del Creatore”.

Sulla stessa linea, proprio il suo maestro, sant’Agostino, in un passo che forse Mendel conosceva, aveva scritto: “La bellezza della terra è come una voce muta che si leva dalla terra. Tu l’osservi, vedi la sua bellezza, la sua fecondità, le sue risorse; vedi come si riproduca un seme facendo germogliare il più delle volte una cosa diversa da quella che era stata seminata. Osservi tutto questo e con la tua riflessione quasi ti metti ad interrogarla… Pieno di stupore continui la ricerca e scrutando a fondo scopri una grande potenza, una grande bellezza e uno stupefacente vigore. Non potendo avere in sé né da sé questo vigore, subito ti vien da pensare che, se non se l’è potuto dare da sé, gliel’ha dato lui, il Creatore. In tal modo ciò che hai scoperto nella creatura è la voce della sua confessione che ti porta a lodare Dio” (S. Augustini, Enarr. in Ps 144, 13).

Del resto la scoperta delle leggi della genetica, nota il biografo Alain Corcos, derivava a Mendel, “monaco Agostianiano e prete”, anche dalla sua stessa fede religiosa, per la quale in un mondo creato da un Dio Ragione, Legislatore universale, deve esistere una regolarità nella natura: “Dal momento che Dio ha creato l’intero universo, perché le leggi naturali dovrebbero esistere solamente nella fisica e nella chimica? Forse esse esistono anche in biologia, ma nessuno le ha cercate nel modo giusto”.
Inoltre Mendel era perfettamente integrato nella vita religiosa del suo monastero, che prevedeva tanta preghiera (attraverso cui l’uomo attinge da Dio la forza di amare ogni giorno la quotidianità ed il creato, e l’umano, incontrando il divino, si fa fecondare e diviene collaboratore dell’opera creatrice), una assidua vita liturgica (secondo l’antico rito latino, che allora unificava l’orbe cattolico) e l’importanza delle opere di carità. All’inizio del suo servizio in monastero Mendel infatti fu mandato a fare l’assistente spirituale in un ospedale vicino al monastero. Ma ben presto sembrò, sia lui che al suo abate, che non fosse quella la sua missione, per la sua “invincibile timidezza nei confronti dei malati e dei sofferenti”.

Ciononostante, alla sua morte il giornale locale Tagesbote scrisse che era morto un “prete esemplare” e un “benefattore dei poveri”. Non sappiamo bene cosa si nasconda dietro questa definizione, però è certo che l’attenzione ai poveri, come all’assistenza ai malati, era sempre stata, con le inevitabili e deplorevoli eccezioni, un dovere monastico cui Mendel non si sottrasse (per esempio pagando gli studi a dei ragazzi poveri, quando era abate; dando lezioni private gratuite; aiutando a studiare i figli della sorella più giovane, Teresa- due dei quali diverranno medici e uno astronomo).

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Inoltre Mendel, come abate, svolse il ruolo di curatore dell’Istituto moravo per i sordomuti. Questo fatto può apparire strano, oggi, ma è opportuno ricordare che proprio sant’Agostino, cui l’ordine monastico di Mendel si rifaceva, è ricordato come uno dei primi santi ad occuparsi dei sordomuti, che nell’antichità pagana, prima dell’avvento del cristianesimo, erano invece, sovente, uccisi sin da piccoli o profondamente misconosciuti nella loro dignità umana. Era stato poi proprio un monaco, un benedettino spagnolo, padre Pedro Ponce de Leon (nella foto in alto), nel XVI secolo, il primo che a dedicarsi con costanza ad educare i sordi: avendo compreso che la parola parlata non è soltanto un fenomeno uditivo ma anche visivo, insegnava ai sordomuti a leggere il labiale e a scrivere, segnalando loro con il dito indice della mano destra le lettere figurate nella sua mano sinistra (alfabeto bimanuale), e poi gli oggetti identificati con il loro rispettivo nome (sino a fine Ottocento l’educazione dei sordomuti rimarrà in mano ai monaci, ai sacerdoti ed alle suore; molto tardivo sarà invece l’intervento degli Stati in questo campo).

In generale si può ricordare che le attività caritatevoli di Mendel si inserivano dunque all’interno della grande storia della carità monastica. Soprattutto nell’alto medioevo, infatti, i monaci furono coloro che ricopiarono tutti i testi di medicina greci, che altrimenti sarebbero andati perduti, e soprattutto realizzarono la gran parte degli ospedali dell’epoca, per assistere poveri, infermi, pellegrini, orfani…: “Nei monasteri benedettini si praticava in generale un’ospitalità a 360 gradi. Infatti il monaco, divenuto volontariamente “povero di Cristo”, doveva avere un occhio di riguardo verso i poveri involontari (pauperes inviti, ma anch’essi pauperes Christi) e solitamente si dedicava loro la decima parte dei redditi del monastero, delle elemosine e dei donativi, oltre a ciò che rimaneva dai frequenti digiuni, imposti dalla regola per insegnare ai monaci l’autocontrollo, la partecipazione alla Passione di Cristo, l’attenzione verso i bisognosi. Per secoli i poveri giungevano alla porta dei monasteri per cercarvi un “asilo di pace”, aiuto e cibo.

La liturgia dell’ospitalità”, scrive il grande storico della povertà Michel Mollat, cominciava “alla porta del monastero”: qui il cellario o il padre portinaio, spesso scelto per le sue virtù, doveva distinguere tra le varie categorie di mendicanti, e dar vita al cerimoniale di accoglienza. All’ospite si lavavano e si baciavano i piedi (mandatum), come aveva fatto Cristo con i discepoli insegnando loro a “servire” e non ad “essere serviti”, e poi si offriva da mangiare, in foresteria, se malato, o nell’hospitale pauperum. Venivano forniti viveri anche a coloro che si rimettevano in viaggio, e soprattutto a coloro che si presentavano di giorno in giorno alla porta (pauperes supervenientibus). “Sono ben note le razioni date a Corbie: pane, birra, qualche volta vino, legumi, formaggio, lardo e talvolta anche carne. Si distribuiscono anche scarpe e vestiti usati dai monaci, coperte, legna per scaldarsi e per cuocere i cibi, utensili di uso comune. Qualche volta, a partire dal secolo IX, si dona anche denaro”.

Inoltre i monasteri organizzavano periodiche distribuzioni, in occasione di festività come Natale, Pasqua, Ognissanti, e la visita settimanale ai poveri ammalati nelle loro case. L’abate Smaragdo di Verdun, nel suo Commento alla regola di san Benedetto, invitava i suoi monaci alle opere di misericordia, esortandoli a visitare gli infermi, a ricercare i poveri nel timore che dormissero all’aperto, ad accogliere quelli di essi che bussavano alla porta del convento, confortandoli (recreare pauperes) con gioia (libente animo) e allegria (cum hilaritate): tra i poveri in particolare raccomandava i fanciulli (infantes) e i vecchi, tra i quali annoverava anche i deboli di mente. Anche a questa storia apparteneva, in qualche modo, Gregor Mendel, non solo uomo di scienza, ma uomo e cristiano, nel senso più ampio del termine. E monaco.

Da: Francesco Agnoli, Enzo Pennetta, Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel. Alle origini della Biologia e della Genetica, Cantagalli, Siena, 2012

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